LA SANTA
Il
culto di Santa Barbara, Vergine e Martire Cagliaritana, ebbe inizio o
rinnovato impulso a partire dal 1620. In quell’anno, infatti, durante
gli scavi nella Cripta di Santa Restituta a Cagliari, ordinati
dall’allora arcivescovo Francisco Desquivel (1605-1624), il 23 giugno fu
ritrovato un loculo terragno con la seguente iscrizione: S(ancta)
Barbara V(irgo) et / M(artyr) q(uae) vixit an(n)is / XXX. In
traduzione italiana: «Santa Barbara, Vergine e Martire, che visse trent’anni».
Il padre Cappuccino Serafin Esquirro, uno tra gli studiosi maggiormente
impegnati nelle ricerche seicentesche dei Cuerpos Santos, che
all’epoca interessarono tutta la Sardegna, parlando della scoperta nel
suo libro Santuario de Caller, pubblicato nel 1624, spiega come
questa gli avesse dato modo di intendere certi riferimenti di antiche
tradizioni locali, rimasti sino a quel momento alquanto misteriosi.
Secondo tali racconti, una Santa di nome Barbara sarebbe stata
decapitata non molto lontano da Cagliari, sulle montagne di Capoterra,
in un luogo chiamato La Escap(i)sada a causa appunto di
questo martirio. L’Esquirro, inizialmente, aveva ritenuto ridicola
questa tradizione (cosa de risa, dice testualmente), perché
l’unica Santa Barbara nota al Martirologio Romano, venerata il 4
dicembre, era stata uccisa a Nicomedia di Bitinia (oggi Ismid, in
Turchia) e con Cagliari non aveva mai avuto niente a che fare. Alla luce
di questo ritrovamento, però, egli dovette ricredersi e ammettere un
caso di omonimia, cioè che un’altra cristiana di nome Barbara fosse
stata martirizzata in odio alla Fede anche a Cagliari. Durante il
medioevo, con lo spopolamento e l’abbandono subito dalla città a causa
delle invasioni islamiche (de los iniquos Sarraçinos, scrive
l’autore seicentesco), la documentazione storica relativa a questa Santa
locale sarebbe dunque andata dispersa, la sua figura dimenticata e
progressivamente confusa con quella, ben più famosa, della Martire
nicomediense.
A questo primo quadro ricostruttivo aggiunse nuovi elementi
Dionisio Bonfant, nel suo Triumpho de los Santos del Reyno de Cerdeña,
pubblicato a Cagliari nel 1635, avendoli a propria volta raccolti sia
dalla tradizione orale sia tramite sopralluoghi personalmente
effettuati. Poiché le reliquie di Santa Barbara e quelle di Santa
Restituta erano state ritrovate a breve distanza le une dalle altre,
egli ipotizzò che le due fossero state compagne anche nel martirio.
Riferendo l’Esquirro, anche il Bonfant accolse la tradizione del
martirio della Santa avvenuto sui monti di Capoterra, aggiungendo che la
sorgente detta Sa Scabiçada sarebbe scaturita proprio nel momento
in cui la testa di Barbara, recisa, cadde al suolo.
Interessantissime notizie furono quindi da lui fornite su certi
monaci che avrebbero edificato, a protezione della fonte, la
cappillica (cioè la cappellina) ancora esistente, e sugli Eremitani
di Sant’Agostino che, nel XIII secolo, eressero poco più a valle la
chiesa che tuttora si conserva. Bonfant ricorda inoltre come quei
religiosi custodissero una cabeça de marmol desta Santa, ad
ulteriore memoria del suo martirio.
Proprio quest’ultimo elemento consente importanti osservazioni. Al
contrario di quanto pensavano Esquirro e Bonfant, il toponimo La
Escap(i)sada / Sa Scabiçada potrebbe non essere molto antico,
ma risalente a dopo l’arrivo in Sardegna dei catalano-aragonesi, nel XIV
secolo. Tale toponimo, dunque, sarebbe stato coniato in età abbastanza
tarda, probabilmente nel momento in cui i monaci Basiliani, nel 1335,
poterono entrare in possesso della chiesa di Santa Barbara grazie alla
generosità del re d’Aragona e di Sardegna Alfonso IV il Benigno. Questi
religiosi, insediandosi nel romitorio, dovettero probabilmente trovarvi
la testa marmorea e, dal tentativo di spiegarne la presenza, potrebbe
essersi ingenerata in loro la convinzione che il supplizio della Santa
fosse avvenuto proprio in questo luogo.
Dai costruttori romanici la testa marmorea doveva essere stata
raccolta tra le rovine di Cagliari o della vicina Nora, assai
verosimilmente, per essere utilizzata quale elemento decorativo di
reimpiego, secondo un gusto antiquario tipico delle architetture
medievali di norma pisana, alla quale per stile si assegna anche la
chiesa di Santa Barbara.
Niente esclude, beninteso, che i monaci Agostiniani avessero voluto
collocare nella loro chiesa questo pezzo d’antichità anche per
avvalorare una tradizione - quella del martirio di Santa Barbara -
connessa al sito già prima del loro arrivo. Certo è, in ogni caso, che
nel 1365, quando la chiesa di Santa Barbara e le sue pertinenze
fondiarie erano divenute proprietà dell’arcivescovo di Cagliari, il loro
affittuario era tenuto a corrisponderne il relativo censo in due rate:
la prima a settembre, per la festa di San Michele, che anticamente
rappresentava l’inizio dell’annata agricola; la seconda il 4 dicembre,
giorno della festa di Santa Barbara di Nicomedia, segno che, già
all’epoca, la confusione tra le due sante omonime era già cominciata.
Chi storicamente sia stata questa Santa Barbara Vergine e Martire
Cagliaritana, ormai, non è più dato sapere, ma la conoscenza precisa
della sua età, da parte di chi realizzò l’epigrafe funeraria trovata nel
1620, parrebbe poterne suggerire l’ipotetica identificazione con un
personaggio locale (o comunque distinto dalla Martire di Nicomedia, che,
secondo la passio, morì giovinetta) di cui, per un certo tempo,
la Chiesa cagliaritana avrebbe conservato una qualche memoria storica,
andata poi disgraziatamente perduta. Nel presente caso, ammettendo che
non si sia comunque trattato di un falso realizzato nel medioevo,
l’iscrizione avrebbe quindi potuto essere stata compilata ex novo,
sulla base di fonti a carattere letterario, o rifatta sulla base di
un’epigrafe preesistente ormai distrutta.
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Il cosiddetto Carcere di Santa Restituta nel quartiere di Stampace,
a Cagliari. Si tratta di un vastissimo ambiente ipogeico, scavato
nella roccia calcarea, all’interno del quale, in un loculo sotto il
pavimento, il 23 giugno 1620 furono ritrovate le reliquie di Santa
Barbara Vergine e Martire Cagliaritana. Nato in età punica come cava
di blocchi e poi trasformato in magazzino di anfore, in età romana,
alla metà circa del XIII secolo fu adibito a luogo di culto
cristiano dedicato al culto di Santa Restituta e di vari altri
Martiri.
L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana negli
Actas Originales, cioè nell’atto notarile ufficiale redatto
al momento stesso della scoperta delle reliquie. Essendo andata
disgraziatamente smarrita la lapide originale, descritta in lingua
catalana come una loseta de marbre y en ella el letrero esculpit
en lletras maiuscolas entre reglas (cioè «una lastrina marmorea
con l’iscrizione incisa in lettere maiuscole, entro linee di
guida»), questo documento è l’unico a restituirci il preciso aspetto
grafico dell’epigrafe, notevolmente semplificato nelle successive
trascrizioni a stampa pubblicate dall’Esquirro e dal Bonfant. La sua
testimonianza risulta dunque della massima importanza, perché il
formulario dell’epigrafe non può essere paleocristiano, come
impropriamente ritenuto dagli scopritori seicenteschi, ma ben più
tardo: questo spiega come mai nella sua rappresentazione manoscritta
compaiano, assieme alle maiuscole capitali classiche, di tradizione
romana, anche varie lettere di tipo indubbiamente successivo, cioè
in maiuscola onciale, come la M puntata alla riga 2. Una simile
commistione di caratteri potrebbe appunto riportare in piena età
medievale, trovando confronti strettissimi in numerose altre
epigrafi sarde risalenti ai secoli XI-XIII. Altri importanti
indicatori cronologici per l’iscrizione di Santa Barbara sono i
segni di interpunzione triangoliformi, sistematicamente apposti a
separare non le diverse parti del discorso ma le singole parole
l’una dall’altra, ancora secondo l’uso medievale. Altro indizio di
datazione tardiva, infine, potrebbe anche essere considerata la
parola an(n)is della riga 2, scritta con una sola N, la cui
geminazione era probabilmente supplita tramite una tilde
orizzontale, non rilevata dal redattore degli Actas forse
perché confusa con le reglas, le righe, entro le quali
risulta essere stato ordinato il testo originale.
L’iscrizione di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana nel
Santuario de Caller del cappuccino p. Seraffin Esquirro,
ponderoso volume di oltre 500 pagine pubblicato a Cagliari nel 1624.
Rispetto al disegno riportato nei documenti manoscritti
seicenteschi, si può constatare come il tipografo avesse
regolarizzato la forma del testo, eliminando tutte quelle
particolarità grafiche che gli risultava difficoltoso riprodurre con
fedeltà assoluta. Anche per questo motivo, non potendosi riportare
il formulario dell’epigrafe ad epoca paleocristiana né potendosene
intuire la reale datazione ad età medievale (quando ancora non era
noto agli studiosi il manoscritto degli Actas Originales,
conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Cagliari), tutta la
critica più recente, addirittura accusando di frode l’Esquirro e il
Bonfant, la considerò una falsificazione, assieme a tutte le altre
iscrizioni da essi pubblicate. La condanna più grave venne da parte
di Theodor Mommsen, autorità indiscussa nel campo della storia
antica e dell’epigrafia latina, dietro il quale perciò si disposero,
sino a tempi ormai immediatissimi, quasi tutti gli altri studiosi.
Effigie di Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana, in legno
intagliato e policromato, custodita presso la chiesa parrocchiale di
Capoterra ed utilizzata per le processioni. Secondo la particolare
iconografia diffusa a partire dall’età bizantina, la Santa è qui
raffigurata nelle ricche vesti di un’appartenente alla corte celeste
di Cristo Re dell’universo, con tunica di broccato verde pallido
trapunta d’oro, cintura pure d’oro stretta alla vita e mantello di
porpora elegantemente panneggiato sulle spalle e ripiegato sul
braccio destro. La mano destra stringe il ramo di palma, simbolo del
martirio, ed è portata verso il cuore a significare il dono della
vita per amore di Cristo. Lo sguardo della Santa, illuminato di
gioia, è infatti rivolto verso l’alto, a contemplare le realtà
celesti, mettendo ancor più in evidenza il taglio sanguinoso che le
segna la gola, a ricordo della decapitazione subita. Tutta pervasa
di grazia settecentesca, sotto la lunga veste, la snella e leggiadra
figuretta della Martire accenna palesemente un passo di danza, una
movenza da minuetto, mentre il braccio sinistro si allarga con
eleganza come per cogliere fiori: non si tratta di una semplice
leziosaggine dell’anonimo scultore napoletano, di una sua scontata
concessione al gusto del tempo, ma di un preciso richiamo alle
figure contenute nell’inno liturgico Jesu Corona Virginum,
attribuito a Sant’Ambrogio (339-397), che la Chiesa da secoli intona
nelle ricorrenze festive delle Sante Vergini. In tale composizione
infatti, con immagini tratte specie dal Cantico dei Cantici e dal
libro dell’Apocalisse, viene cantato Cristo che, nel giardino del
Paradiso, pergit inter lilia, «incede tra i gigli», (Cant.
2, 16) septus choreis Virginum, «contornato dalle danze delle
Vergini» (cfr. Ger. 31, 13; Ap. 14, 4), elette sue
compagne per tutta l’eternità. |
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