L'ESTERNO DELLA CHIESA
La fase più antica della chiesa di Sancta Barbara de Montes
(questa la sua denominazione in un documento del 1365), nelle campagne
di Capoterra, è testimoniata da una famosa epigrafe del 1281 secondo lo
stile pisano (1280 secondo il computo attuale). Entro tale data, a spese
dell’arcivescovo di Cagliari Gallo (1276-1289) che, prima di essere
elevato alla dignità episcopale, visse a lungo in questo luogo
professando la regola degli Eremitani di Sant’Agostino, fu eretta una
semplice aula rettangolare mononavata con abside rivolta ad Est, cioè
verso Gerusalemme, secondo uno schema icnografico comune a parecchi
edifici romanici sardi d’influsso toscano, databili tra XII e XIII
secolo. Il paramento murario è realizzato in blocchi di arenaria o
breccia conchiglifera nella fascia inferiore, in blocchi calcarei in
quella superiore, tutti perfettamente squadrati, trasportati fin qui
dalle cave di Cagliari e allettati su malta di calce. Il frontone
profilato da paraste, impostato su un’alta zoccolatura sbiecata a
scarpa, è diviso in tre specchiature da una coppia di lesene con
capitelli a motivi figurati (testine umane stilizzate) e vegetali
(foglie appuntite ricurve contrapposte). Gli archetti a tutto sesto, a
ghiera semplice, seguono con andamento saliente gli spioventi del tetto,
cui manca il terminale che probabilmente innalzava un campaniletto a
vela in corrispondenza delle lesene centrali. I piedritti degli
archetti, qui in buona parte ancora conservati, riportano un vasto
campionario fitomorfo (motivo a foglia stilizzata), figurato (testine
umane) e geometrico-astratto (motivi cruciformi e scalettati). Il
portale d’accesso, attualmente murato, mostra capitelli sgusciati nelle
facce affrontate ed arco sopraccigliato a tutto sesto posato su mensole
con gola e foglia aguzza ricurva. La soglia, estremamente consunta da un
plurisecolare scalpiccio, è rialzata di circa 50 cm. rispetto alla base
della zoccolatura, onde evitare che la chiesa venisse allagata dalle
acque piovane convogliate dal soprastante costone montuoso. In antico
l’ingresso doveva dunque essere corredato di una scalinata, oggi non più
esistente. Caratterizza questa facciata la presenza di ben 38 cavità
circolari, tutte ormai vuote, originariamente destinate
all’alloggiamento di bacini ceramici decorativi. Tipica delle
architetture romaniche fu infatti l’usanza di ravvivare cromaticamente
le murature inserendo a fil di parete, entro appositi alloggiamenti
chiamati “nidi”, ciotole e piatti decorati a colori vivaci. Forse
leggermente posteriore all’antica facciata è la fiancata nord, nella
quale si apre oggi l’unico ingresso dell’edificio. Anch’essa divisa in
tre specchi da due lesene su zoccolatura a scarpa, inquadranti un
piccolo ingresso secondario, a differenza della prima è coronata da
archetti trilobati di ispirazione ispano-araba (cioè con arco a tutto
sesto sovrastato da un piccolo lobo rotondo), poggianti su piedritti
andati purtroppo distrutti, sopra i quali corre una fitta serie di
cavità per bacini decorativi, in numero di 35, anch’essi ormai
scomparsi.
Tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, come testimoniato
nel 1635 da Dionisio Bonfant, i Frati Minori Conventuali di San
Francesco di Stampace, a Cagliari, desiderando poter disporre di un
ospizio isolato e in posizione salubre, in cui poter trascorrere
eventuali periodi di ritiro o di convalescenza, ottennero
dall’arcivescovo di Cagliari, che ne era ritornato il proprietario, la
chiesa di Santa Barbara in cambio di quella di Santa Maria di Uta.
Risale a questo periodo la costruzione, lungo la fiancata settentrionale
e l’antica facciata rivolta ad Occidente, di un porticato dalle ampie
arcate in mattoni (quattro lungo il lato maggiore, tre lungo quello
minore) sorreggenti una semplice copertura lignea. Strutture di questo
tipo trovano ampi confronti nelle architetture rustiche seicentesche
disseminate nel Campidano di Cagliari, ed erano destinate sia al
ricovero dei pellegrini sia, nel caso specifico, a collegare la chiesa
con il nuovo edificio conventuale costruito sul lato Sud-Ovest, in modo
che i frati potessero transitare dall’una all’altro stando sempre al
riparo. In questa stessa occasione fu anche leggermente ribassato il
tetto dell’aula romanica, in modo che sia essa sia il portico potessero
essere coperti da un’unica falda di tegole, conferendo così al nuovo
insieme architettonico una certa uniformità di linee.
Nel 1739,
come ricorda un’epigrafe marmorea murata all’interno, demolendo un ampio
tratto della fiancata meridionale per aprirvi l’ampio fornice d’accesso,
la chiesa fu ingrandita con l’aggiunta di un cappellone cupolato simile
al corpo cupolato centrale della basilica cagliaritana di San Saturnino.
Qui fu collocato il nuovo altare maggiore, modificando l’orientamento
liturgico dell’edificio, cosa che probabilmente comportò anche lo
spostamento del campaniletto a vela dall’antica facciata alla nuova, ora
corrispondente al portichetto settentrionale.
Ai primi
dell’Ottocento, sempre a cura dei frati francescani, fu quindi ampliata
l’originaria porticina laterale a tutto sesto, ricostruita in mattoni
con arco a sesto ribassato secondo la moda del tempo, e fu rifatti
l’ammattonato a corsi alternati del portico e quello della chiesa
(sostituito abusivamente, negli anni Sessanta, da un altro in mattonelle
di graniglia).
Da questo momento la struttura non ha più subito altri interventi
sostanziali, a parte quelli di restauro conservativo, con rifacimento
completo del tetto, promossi a due riprese dalla Soprintendenza ai Beni
AAAS per le Provincie di Cagliari e Oristano, nel 1986 e nel 1989.
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L’antica facciata romanica della chiesa, con il portale obliterato
nel 1861 da una rozza tamponatura in pietrame bruto, cementato con
malta bastarda (fango e calce) e rinzeppato con frammenti di
tegolame. Gli elementi decorativi dei piedritti che sorreggono gli
archetti pensili, alcuni di puro stile romanico ed altri
arabeggianti, risultano tutti già noti in altre chiese sarde del
XIII secolo, come quella di Santa Maria di Bonarcado, di San
Pantaleo a Dolianova, di San Gemiliano a Sestu o di San Pietro di
Ponte a Quartu Sant’Elena: si pensa perciò che tutti questi edifici
siano stati realizzati da uno stesso gruppo di costruttori, formato
sia da elementi toscani sia da elementi mozarabici, cioè provenienti
da quelle aree della penisola iberica all’epoca ancora assoggettate
alla dominazione islamica.
Prendendo possesso della chiesa di Santa Barbara di Capoterra e
costruendovi un loro nuovo convento, tra la fine del XVI e gli inizi
del XVII secolo, i frati Minori Conventuali di San Francesco di
Stampace fecero spostare sulla fiancata nord l’epigrafe del 1280
commemorante la costruzione dell’edificio, originariamente murata
sulla facciata rivolta ad ovest, che era entrata a far parte della
clausura conventuale ed era quindi divenuta inaccessibile al
pubblico. Siccome la scrittura gotica epigrafica, a quell’epoca, era
ormai diventata difficilmente decifrabile, ne fecero anche ricopiare
il testo in lettere capitali latine sul lato opposto della stessa
lapide, commettendo però qualche piccolo errore che si è potuto
correggere solo con la riscoperta del testo originale, avvenuta nel
1986. Vi si legge: ((croce)) Ad honorem Dei et Beat(a)e
Barba/r(a)e Mart‹y›ris p(rae)sens Eccl(es)ia est construc/ta sub
anno D(omi)nic(a)e Incarnationis M°/CC° LXXXI, indictione VIII, D(omi)no
Gallo / K(a)l{l}ar(itanae) Eccl(es)i(a)e p(re)suli residente et Fr(atr)e
/ Guantino H(ere)mita p(rae)fatum locum / ‹et› coheremitas suos
eodem te/mpore gubernatore. In traduzione italiana: «Questa
chiesa fu costruita a onore di Dio e di Santa Barbara Martire
nell’anno dall’incarnazione del Signore 1281, durante l’ottava
indizione, essendo arcivescovo residente della Chiesa cagliaritana
il Signore Gallo ed essendo nello stesso tempo a capo del suddetto
luogo e degli altri suoi compagni di romitaggio frate Guantino
eremita». A seguito di un furto e del successivo fortunoso
ritrovamento, l’iscrizione è oggi custodita presso la Pinacoteca
Nazionale di Cagliari.
In occasione dei lavori di restauro cui la chiesa di
Santa Barbara, nel 1986, fu sottoposta a cura della Soprintendenza
ai Beni AAAS per le Provincie di Cagliari e Oristano, all’interno
degli oltre settanta nidi per l’alloggiamento di bacini decorativi
attualmente visibili sui paramenti esterni, non si poterono
recuperare che un frammento di ampia coppa islamica di produzione
tunisina, smaltata di bianco e decorata a motivi floreali stilizzati
in cobalto e manganese (cioè in azzurro e violaceo), rinvenuto in
facciata (a), e, lungo la fiancata settentrionale, due
protomaioliche brindisine, una delle quali decorata in policromia
con una figura di uccello e l’altra a motivi geometrici (b-c),
associate a una coppa emisferica andalusa (proveniente cioè dalla
Spagna centro-meridionale) con decorazione fitomorfa a lustro
metallico su smalto bianco (d). I reperti, tutti risalenti
alla seconda metà del XIII secolo, furono prelevati per motivi di
sicurezza, adeguatamente restaurati, ed ora si conservano presso la
Pinacoteca Nazionale di Cagliari.
Attuale facciata porticata della chiesa, rivolta a Settentrione, con
il campaniletto a vela in cemento armato ricostruito negli anni
Settanta al posto di quello più antico, in materiali di spoglio,
atterrato da un fulmine.
Esterno del cappellone settecentesco con la cupola rivestita in
cocciopesto (un impasto di calce idraulica frammista a cocciame
triturato), rinnovato in occasione dei recenti restauri.
Portale d’accesso sul lato settentrionale, allargato nel 1803 a
spese di quello originale, risalente ad età romanica, di cui sul
lato destro sono ancora visibili uno stipite e un breve spiccato
dell’arco a tutto sesto in conci sagomati. A questi lavori,
probabilmente, allude un’epigrafe marmorea ora murata all’esterno di
Villa Larco, a poche decine di metri a Nord della chiesa: Op(er)a
fatta dal M(olto) R(everendo) P(adre) M(aestro) / Masala Sotgiu, ex
Pro(vinciale), / essendo Presid(en)te di S(anta) / Barbara. / Il
portale lo diede / l’Ill(ustrissi)mo Sig(no)re Don Giuseppe / Angelo
Viale. A(nno) D(omini) (cioè “nell’anno del Signore”) 1803.
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