L'INTERNO DELLA CHIESA
La chiesa di Santa Barbara a Capoterra consta anzitutto di una
piccola aula mononavata rettangolare, canonicamente orientata lungo
l’asse Est-Ovest, edificata entro il 1280 in stile romanico con
copertura a capriate lignee, mantenute anche in occasione dei recenti
restauri. Originariamente vi si accedeva dal lato breve occidentale,
mentre su quello orientale si apriva la conca dell’abside (di cui non si
conserva più alcuna traccia) che ospitava l’altare: su questo, a partire
dal 1661, quotidianamente celebrò i divini misteri il Venerabile p.
Tommaso Polla, Minore Conventuale, uno tra i personaggi maggiormente
rappresentativi del Seicento sardo, morto in concetto di santità nel
1663.
In occasione dei più recenti restauri (1986 e 1989), una volta
scrostati i vecchi intonaci, le mura dell’edificio sono risultate in
pietrame bruto legato con malta bastarda (calcina e fango), rivestite
all’esterno con blocchi squadrati di breccia conchiglifera e di calcare
provenienti da cave cagliaritane; è probabile, quindi, che tra le rovine
dell’antica Carales siano stati trovati anche il capitello
corinzio poi trasformato in acquasantiera, oggi scomparsa, e lo stipite
scanalato che fungeva da suo supporto, ancora visibile sul lato destro
dell’attuale unico ingresso, aperto a Nord.
L’asse liturgico infatti, nel 1739, fu ruotato verso il lato meridionale
dell’aula, sul quale si innestò, attraverso una larga arcata, un nuovo
vano presbiteriale di forma pressoché cubica, con abside interna,
sormontato da una bassa cupoletta a bacino ad imitazione del corpo
cupolato centrale della basilica di San Saturnino a Cagliari.
Dell’illustre modello, per quanto in scala notevolmente ridotta, furono
riprodotti anche i tre ampi fornici laterali allora murati a filo della
parete esterna, che formavano perciò come dei grandi nicchioni utili ad
ampliarne la superficie praticabile, e le finestrelle alla base della
cupola, che con la porta d’ingresso costituiscono oggi, per la chiesetta
capoterrese, le sole fonti della sua peraltro scarsa illuminazione
interna. Uno spiraglio di luce (un oculo o più probabilmente una
monofora) doveva esistere anche sopra l’ingresso originario, a Ovest, ma
fu successivamente murato, come sembrerebbe indicare, in questo punto,
un certo disordine della tessitura muraria.
L’altare maggiore di stile barocco, in marmi intarsiati policromi,
risulta dal successivo assemblaggio di tre distinti nuclei databili il
primo al 1739 o poco prima (il paliotto), al 1796 (i gradini) e al 1804
(l’edicola), dovuti tutti alla generosità di singoli benefattori
ricordati in altrettante epigrafi. Agli anni finali del Settecento o
agli inizi dell’Ottocento risale il simulacro della Santa, in legno
intagliato e policromato di bottega locale, purtroppo molto rovinato e
bisognoso di urgenti restauri.
Lungo le pareti dell’aula romanica, regolarizzate alla meglio da
uno spesso strato di intonaco ed imbiancate a calce, sono stati
addossati dei sedili in muratura che, partendo dalla porta d’ingresso,
si protendono da una parte fino a metà del lato breve di sinistra, e
dall’altra corrono continui fino al piedritto dell’arco presbiteriale,
interrotti solo da un altare minore sul fianco destro, dedicato a Santa
Barbara di Nicomedia.
Quest’ultimo, eretto nel 1861 da un tal Angelo Imeroni, occlude la
luce dell’antico portale che era divenuto ormai inutile, come passaggio
interno dalla chiesa al conventino dei francescani, dopo l’esproprio da
essi subitone a tenore delle leggi di soppressione degli ordini
religiosi, fatte eseguire a Cagliari proprio nel marzo di quell’anno.
A seguito di ciò il convento e le sue pertinenze furono
parcellizzati e venduti a privati, che diedero origine alla borgata
residenziale estiva di Santa Barbara, molto amata e frequentata dalla
borghesia cagliaritana fino all’ultimo dopoguerra. Caduta poi la moda
della villeggiatura montana, a favore di quella al mare, il villaggio
cominciò ad andare lentamente in rovina e con esso la chiesa, più volte
profanata e derubata di vari arredi, tra cui il tabernacolo dell’altare
maggiore.
Al declino ci si cominciò ad opporre nel 1986 con il completo
rifacimento del tetto, eseguito a cura della Soprintendenza ai Beni AAAS
per le Provincie di Cagliari ed Oristano usufruendo di un finanziamento
comunale. Molto, tuttavia, rimane ancora da fare, come il restauro dei
pavimenti e dell’altare maggiore, l’isolamento del corpo cupolato dalle
varie strutture che gli si addossano, favorendo la penetrazione
dell’umidità, il ripristino dei locali appartenenti all’obreria sul lato
occidentale e l’esecuzione di una campagna di scavi mirata, all’interno
e all’esterno della chiesa, volta a chiarire una volta per tutte il
problema della frequentazione monastica del sito in età medievale,
quello delle sue origini e della sua evoluzione, delle quali, a parte le
mura romaniche, null’altro sembrerebbe essersi conservato.
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Scorcio d’interni della chiesa di Santa Barbara a Capoterra, in una
foto risalente alla fine degli anni Cinquanta. L’altare maggiore
ancora conservava il suo tabernacolo originale in rame dipinto con
simboli eucaristici e lo sportello della nicchia in legno intagliato
e dorato, recentemente trafugati.
L’altare maggiore della chiesa di Santa Barbara Vergine e Martire
Cagliaritana, in marmi intarsiati policromi, risultante
dall’assemblaggio di almeno tre parti distinte. Quella più antica,
risalente probabilmente all’anno stesso in cui fu costruito il
cappellone, cioè il 1739, è costituita dal paliotto della mensa
campito da girali fioriti attornianti un ovale: attualmente accecato
alla meglio da due ritagli marmorei, quest’ultimo in origine doveva
contenere una qualche figura a bassorilievo della Santa, un simbolo
del suo martirio o uno stemma, oppure costituire una finestrella
attraverso la quale si poteva prendere visione di qualche reliquia
custodita all’interno dell’altare. Nel 1796, a spese dei marchesi
Aymerich, alla mensa furono quindi aggiunti i due piedritti laterali
e i tre gradini a volute per i candelieri, anche se quello
superiore, dalle tarsie ormai semplificate in semplici figure
geometriche, potrebbe essere considerato leggermente più tardo.
L’edicola contenente l’immagine della Santa, fino a questo momento,
doveva essere rimasta ancora quella originaria, probabilmente in
legno. A sostituirla con un’altra in marmo, di forme tardo barocche,
si procedette solo agli inizi dell’Ottocento, come ricordato da
un’iscrizione in lingua italiana murata alla base della nicchia:
Bartolomeo Sciaccarama / Obrero dell’an(n)o 1804 / fece gratis.
“Obrero” significa obriere, cioè presidente del comitato spontaneo
di devoti che, di anno in anno, si incaricava di organizzare i
festeggiamenti in onore della Santa. Come risulta da alcune vecchie
fotografie, in origine l’altare aveva il tabernacolo con lo
sportello in rame ornato da simboli eucaristici e la nicchia della
Santa chiusa da una vetrina in legno intagliato e dorato: entrambi,
purtroppo, sono stati trafugati abbastanza di recente e sostituiti
da poveri manufatti provvisori in truciolato rivestito di fòrmica,
che contrastano dolorosamente con l’armonia dell’insieme.
Epigrafe
commemorante l’edificazione del corpo cupolato della chiesa di Santa
Barbara Vergine e Martire Cagliaritana: In honorem S(anctae)
Barbarae / V(irginis) et M(artyris) Calaritanae / Extructum hoc
sacellu(m) / (anno) 1739. In traduzione italiana: «Questa
cappella fu costruita in onore di Santa Barbara, Vergine e Martire
Cagliaritana, (nell’anno) 1739».
Epigrafe commemorante la realizzazione dell’altare tardo barocco di
Santa Barbara Vergine e Martire Cagliaritana: (Il) 16 mag‹g›io
(dell’)anno 1796 / quest’opera fu fatta / nella obb(edienz)a d(egl)i
Ec(cellentissi)mi Si(gno)ri Mar(chesi) / di Laconi D(o)n Ign(azio)
Aymerihc (!) e / D(onn)a Madal(e)na Zaltrillas (!).
Particolare della predella dell’altare laterale destro, fatto
costruire nel 1861 da Angelo Imeroni a ridosso dell’antico portale
d’accesso appositamente murato. Il rivestimento è in mattonelle
maiolicate policrome di fabbrica napoletana, risalenti appunto alla
seconda metà del XIX secolo.
Simulacro in legno
intagliato e policromato di Santa Barbara Vergine e Martire
Cagliaritana, venerato sull’altare maggiore. Dotato di scarsa
sensibilità plastica e di capacità espressive piuttosto limitate,
l’anonimo autore di questa scultura va ricercato probabilmente in un
elemento locale, uscito dalla bottega stampacina di Giuseppe Antonio
Lonis tra fine Settecento e primi anni del secolo successivo.
Piuttosto statica nell’impostazione, la Santa è qui raffigurata nel
solito ricco abbigliamento trapunto d’oro di appartenente alla corte
celeste, con il manto purpureo, cui si aggiunge, però, una corta
sopravveste a larghe maniche, chiamata dalmatica. Si tratta
di un antico abito da viaggio, molto diffuso in età tardo romana,
che forse fu fatto indossare a Santa Barbara in onore di quanti, per
poterla venerare, compivano a quel tempo un lungo pellegrinaggio
tanto suggestivo quanto tutt’altro che esente da fatiche e pericoli.
La mano destra portava al petto una piccola croce (la stessa che
campeggiava sull’iscrizione funeraria della Santa e che sembrerebbe
potersi considerare il suo attributo iconografico più specifico, a
partire dal bassorilievo seicentesco posto sopra la sorgente),
mentre la sinistra distesa verso il basso doveva reggere un ramo di
palma, a simboleggiare il suo martirio per amore di Cristo. Lo
sguardo della Martire, un po’ attonito, è rivolto verso il Cielo,
sia per esprimere il concetto del suo ruolo di mediatrice tra Cristo
e i fedeli, sia per mettere ancor meglio in evidenza il taglio
profondo e sanguinoso che, con crudo verismo, le attraversa
orizzontalmente la gola. Oltre che un’allusione allo specifico
martirio da lei subito, cioè la decapitazione, il particolare
probabilmente costituisce anche un richiamo alla moda del “vestire
alla ghigliottina”, diffusasi presso le varie corti europee a
seguito della Rivoluzione francese, tra la fine del XVIII e gli
inizi del XIX secolo: per celebrare il terribile tributo di sangue
versato da numerosi rappresentanti della loro classe sociale sui
patiboli del Terrore, le dame dell’aristocrazia, in questo periodo,
usavano infatti indossare uno stretto girocollo in nastro rosso,
simbolo di una ferita.
Antica incisione raffigurante il Venerabile fra’ Tommaso Polla,
sacerdote dei Minori Conventuali di San Francesco. Nato a Cagliari
nel 1615, egli divenne molto famoso per le sue composizioni di
musica sacra eseguite a Firenze, a Napoli e a Cagliari, dove
esercitò le funzioni di maestro di cappella in alcune delle chiese
più importanti. Spaventato dal suo crescente successo personale, in
cui vedeva un possibile stimolo alla vanità e quindi un pericolo per
la sua anima, abbandonò improvvisamente l’arte musicale per
dedicarsi, nel nascondimento, alla penitenza e alla mortificazione.
Chiese ed ottenne, dunque, di potersi trasferire nell’eremo di Santa
Barbara, dove giunse nel 1661. Nell’estate del 1663, essendo la
parrocchia di Capoterra rimasta senza curato, anche perché nessun
sacerdote ne accettava l’incarico nel timore di potervi contrarre l’intemperie,
cioè la malaria, fra’ Tommaso impietosito si recò più volte in
paese, a piedi, per celebrare la messa ed amministrare i sacramenti.
Colto ben presto da febbri maligne fu trasportato a Cagliari per
essere curato ma qui morì, in concetto di santità, il 29 settembre
di quello stesso anno, martire del proprio dovere sacerdotale e
dell’amore per la popolazione di Capoterra. |
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