Nelle campagne tra Capoterra e Poggio dei Pini, in una piccola radura tra le colline alle pendici di Punta Santa Barbara, sorge l’antica chiesetta eremitica di San Girolamo de la Murta.
Il primo documento a suo riguardo finora conosciuto, recentemente scoperto nell’Archivio Arcivescovile di Cagliari, risale al 7 gennaio 1565, quando l’arcivescovo di Cagliari Antonio Parraguez del Castillejo, su richiesta del beneficiato della cattedrale di Cagliari Sisinnio Murro, fece dono a lui e all’eremita frate Francisco Boy della «chiesa di San Girolamo detta “de la Murta”, sita nel territorio di Capoterra, che è un eremitaggio attualmente abbandonato, lontano dai centri abitati e conveniente alle intenzioni, agli auspici e ai desideri del detto frate Francisco Boy», affinché entrambi potessero «condurvi una vita solitaria e contemplativa».
La chiesa di San Girolamo de la Murta, dunque, esisteva già prima del 1565, e la sua funzione era fin da allora quella eremitica. Il totale isolamento della zona, specie a partire dal XIV secolo, quando Capoterra rimase spopolata, e la presenza di una sorgente perenne a breve distanza dalla chiesa, verso occidente, ne facevano in effetti un luogo ideale per chi volesse rimanere in solitudine, dedicandosi alla penitenza e alla contemplazione.
Riguardo alle più remote origini dell’eremo, in mancanza di indagini archeologiche mirate, per ora si può soltanto osservare l’insolito orientamento dell’aula di culto, con la facciata esposta a Settentrione, laddove normalmente, secondo le norme liturgiche seguite fin dal V-VI secolo, l’altare avrebbe dovuto guardare verso Oriente, cioè verso il sorgere del sole, figura di Cristo luce del mondo. Ne consegue che la chiesa di San Girolamo dovette essere ricavata da un edificio preesistente, adibito in origine ad uso profano, anche se ancora risulta impossibile precisare quando tale adattamento sia stato realizzato.
L’antichissima funzione anacoretica del sito parrebbe trovare conferma nella sua toponomastica. Esso, infatti, si trova allo sbocco della vallata detta Su Canali ’e Sant’Antoni, presumibilmente Sant’Antonio Abate, il monaco che nel IV secolo, in Egitto, era stato l’iniziatore del movimento eremitico: a lui era forse dedicata la chiesa di una laura (monastero ad insediamento sparso) di anacoreti, venuti a stabilirsi in questo luogo durante l’età bizantina.
La presenza di simili religiosi, in zona, dovette perdurare lungo tutto l’alto medioevo, divenendo tradizionale. Come attestato da un’epigrafe alcuni di loro, nel XIII secolo, officiarono sicuramente la vicina chiesa di Santa Barbara de Montes.
Sempre in base all’intitolazione, comunque, si deve ritenere che l’eremo di San Girolamo risalga a un’età più recente. Questo santo, infatti, è venerato specialmente dalla Chiesa latina, che riprese il controllo religioso della Sardegna solo nel XII secolo, cancellandone progressivamente le più antiche tradizioni bizantine; inoltre la sua figura, come ispiratore del movimento eremitico occidentale, fu riscoperta solo tra il XIV e il XV secolo, assurgendo a una straordinaria popolarità specie nel Cinque-Seicento, come indicato dalla sua frequente raffigurazione nei retabli.
Nel XVI secolo, per motivi ancora sconosciuti, sia l’eremo di Santa Barbara sia quello di San Girolamo erano diventati proprietà della mensa arcivescovile di Cagliari. Il primo, verso il 1568, fu dato ai frati minori conventuali di San Francesco di Stampace a Cagliari, in cambio della loro chiesa di Santa Maria di Uta; la chiesa di San Girolamo, invece, veniva concessa di volta in volta a singoli eremiti, vita natural durante, come si è visto nel caso di frate Francisco Boy.
Nel periodo tra il 1615 e il 1628, infatti, visse a San Girolamo l’eremita Francisco de Quentia (Achenza), come indicato dalla sua iscrizione funeraria, oggi murata sul prospetto di una casa vicina alla chiesa. Questo religioso dovette godere di una certa fama di santità se nel 1620, durante il periodo della sua permanenza a San Girolamo, ex caritate Christifidelium, cioè grazie alle offerte dei fedeli forse raccolte da lui stesso, per interessamento di tali Nicola Scraxioni e Girolamo Aleo fu fatta fondere per la chiesa una piccola campana, ancora esistente.
Nell’epigrafe del bronzo è menzionato anche un canonico Giovanni Pira, che dovette essere il garante della donazione fatta a Francisco de Quentia dall’arcivescovo Ambrosio Machin de Aquena, così come il beneficiato Sisinnio Murro, nel 1565, era stato il garante di quella fatta a Francisco Boy. Gli eremiti, infatti, emettevano il voto di povertà e non potevano possedere nulla. Di conseguenza, benché sul suo epitaffio frate de Quentia risulti definito hermitaño de S(an) Hieronimo, sia lui sia il Boy non dovettero far parte di nessuna delle quattro congregazioni religiose girolamite allora esistenti, visto che queste, al contrario, in quanto enti ecclesiastici avrebbero potuto possedere la chiesa senza difficoltà.
È quindi probabile che questi due religiosi siano stati “eremiti individuali” (così nel linguaggio canonico), cioè semplici fedeli che al pari di tanti altri, specie nei secoli XVI-XVII, avevano deciso di consacrarsi a Dio emettendo davanti ai rispettivi vescovi i voti semplici. In cambio avevano ricevuto un saio e un attestato che li trasformava in persone ecclesiastiche, abilitate a custodire le chiese campestri e a coltivarne le terre, a compiere opera di apostolato tra i fedeli e a questuare in caso di necessità.
Tale situazione giuridica spiega come mai la chiesa di San Girolamo, che nel 1629 era stata eretta a “canonicato di stallo” della cattedrale di Cagliari, nel periodo dal 1660 al 1664, a quanto risulta dal libro di Status Animarum della parrocchia de San Efis Villa Nova de Caputerra, fosse custodita da un hermano (frate) Miguel Mamely, hermicta de San Yeronimj.
Il “canonicato di stallo” si differenziava da quello “di prebenda” per essere fondato economicamente non sulle decime dovute alla Chiesa da un determinato territorio, ma su una rendita finanziaria, messa a disposizione dal papa, da un vescovo o perfino da una persona privata. La sua intitolazione, dunque, si riferiva di solito a una chiesa appartenente alla mensa vescovile, cioè al patrimonio che i vescovi di ogni singola diocesi si trasmettevano l’un l’altro. Il canonicato di San Girolamo di Capoterra continuò ad esistere fino al 1867, quando fu abolito per legge assieme a molti altri enti ecclesiastici. L’ultimo titolare fu il canonico Paolo Gina (+ 1894), che lo lasciò quando ebbe il canonicato di San Simmaco.
Al titolo canonicale afferivano solo la chiesa con i locali annessi, e forse la sorgente. I terreni tutt’attorno, con un frutteto impiantato prima del 1770, appartenevano invece alla baronia di Capoterra e Sarroch.
Dopo il riscatto dei feudi da parte del governo sabaudo, nel 1840, la zona fu lottizzata e non pochi borghesi cagliaritani vennero a costruirvi una villetta, dove «stavano ne’ bei giorni a goder dell’aria campestre e della caccia» (Angius). Anche a San Girolamo, in seguito, si ripeté quanto accaduto a Santa Barbara: dopo aver costituito, tra la seconda metà dell’Ottocento e fino al secondo dopoguerra, uno dei più rinomati luoghi di villeggiatura campestre sorti nei dintorni di Cagliari, a causa della nuova moda delle vacanze al mare fu progressivamente abbandonato, cadendo in completa rovina. Solo di recente si è cominciato ad assistere al suo doveroso restauro e alla sua valorizzazione.
Nella sua attuale conformazione, pur essendo documentata fin dal 1565, per l’arco a tutto sesto del portale la chiesa sembrerebbe risalire al XVII secolo, in quanto evidentemente concepita secondo canoni architettonici tardo-rinascimentali, e non secondo quelli ancora gotici caratteristici del Cinquecento sardo. Il frontone profilato da paraste, dalle linee semplicissime ed essenziali, con il suo timpano a spioventi modanati, la cornice marcapiano ridotta a un semplice cordolo e il piccolo oculo presso il culmine del tetto, fu probabilmente ricostruito alla fine dell’Ottocento, prendendo a modello la facciata “neoclassica” della chiesa parrocchiale di Capoterra, del tutto simile. Su di esso si innalza un piccolo campanile a vela in mattoni, molto simile a quello della vicina chiesa di Santa Barbara, sicuramente eretto nel tardo XIX secolo riutilizzando anche materiali più antichi. Dopo la soppressione del canonicato e il passaggio dei suoi beni al demanio statale, la chiesa fu abbandonata e cadde in rovina. Nel 1890, come testimoniato dal rettore di Capoterra don Tommaso Lecca, ne erano rimasti in piedi solo i muri di cinta, trasformati in ovile. Nel 1893 fu restaurata a spese dei fratelli Peppino e Faustino Cannas Boy di Cagliari, che avevano scelto San Girolamo come residenza di caccia. Da quel momento essi la considerarono di loro proprietà, ottenendo perfino che l’arcivescovo di Cagliari Paolo Maria Serci, nonostante le proteste del rettore Lecca, la benedicesse e restituisse al culto. Dopo il fallimento commerciale dei fratelli Cannas Boy la chiesa passò a un tal avvocato Giovanni Piroddi, il quale concesse che gli abitanti di Capoterra vi celebrassero tutti gli anni la festa del santo. Altri restauri furono eseguiti anche in epoca successiva: agli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, infatti, doveva risalire il pavimento in mattonelle esagonali di cemento bianco e grigio rimasto in opera fino ad anni recentissimi. Nel 1991, a seguito delle abbondanti piogge invernali, il tetto della chiesa in gran parte crollò. L’edificio rimase completamente esposto agli agenti atmosferici fino al 1994, quando l’imprenditore edile Giovanni Gregorini si preoccupò di rifarne le coperture in legno, il pavimento, una parte degli intonaci, e di sostituirne gli infissi. Attualmente la chiesa viene aperta tutti i giorni e vi si pratica l’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento.
Sul prospetto di una casa privata, a breve distanza dalla chiesa, in un periodo imprecisabile è stata affissa l’iscrizione funeraria in marmo dell’eremita Francisco de Quentia (Achenza), vissuto in questo luogo dal 1615 al 1628: « 1628. / Se(pultur)a de fr(a)i (!) Fran(cis)co de / Que(n)tia, hermitaño (!) / de S(an) Hieronimo. / Entre en dic(h)a iglesia / el dia de su fiesta / en el año 1615. D(ando) g(racias) a D(ios) ». In traduzione italiana: « Tomba di frate Francisco de Quentia, eremitano di San Girolamo. Fece il suo ingresso nella suddetta chiesa il giorno della sua festa (30 settembre) nell’anno 1615. Rendendo grazie a Dio ». L’ultima cifra della prima data, purtroppo piuttosto consunta, a ripetute osservazioni è risultata essere un 8 con l’occhiello superiore aperto, come negli anni Cinquanta del secolo scorso giustamente lesse lo studioso spagnolo Joaquin Arce. Da respingere, dunque, la lettura effettuata alla fine dell’Ottoento dal rettore di Capoterra don Tommaso Lecca, che vi ravvisava uno zero. Resiste ancora ad ogni definitiva proposta di interpretazione, piuttosto, la sigla finale dell’epigrafe, D.GA.G., che solo ipoteticamente, per la prima volta in questa sede, si è comunque voluto sciogliere nella maniera indicata. L’iscrizione è di grande importanza storica anche perché conferma, a un’attenta lettura, come la chiesa sia stata sempre affidata ad eremitani laici di nomina vescovile, non agli Eremitani di San Girolamo, intesi come appartenenti ad una delle quattro congregazioni religiose di questo nome, secondo quanto finora ritenuto. Frate Francisco de Quentia, infatti, vi è detto hermitaño de S(an) Hieronimo, e che il riferimento fosse all’intitolazione della chiesa di Capoterra, non a un ordine religioso, è chiarito dall’accenno immediatamente successivo a una dicha iglesia (la “suddetta chiesa”, cioè quella di San Girolamo), altrimenti incomprensibile.
Un particolare interesse riveste anche la piccola campana bronzea nel campaniletto a vela in facciata, la cui lunga e sgrammaticata iscrizione latina, purtroppo consunta dalle intemperie e quindi in parte illeggibile, attesta che fu fatta fondere appositamente per questa chiesa: « + Sancte Hieronimus (!) ora pro nobis. / Anno MDCXX. / + Hoc opus fecerunt fieri Nicholaus / + Scrax[io]ni et Hieronimus Aleu (?) ex carit / + ate Xr[istifide]lium con licencia (!) Re(verendi) Do(mi)n(i) Il / + dephon[si —] Canonici Ioann[is] Pira ». In traduzione italiana: « San Girolamo prega per noi. Nicola Scraxioni e Girolamo Aleo, nell’anno 1620, hanno fatto realizzare quest’opera grazie alle offerte dei fedeli in Cristo, con licenza del Reverendo Don Alfonso [ — e] del Canonico Giovanni Pira ». Da non trascurare le due piccole raffigurazioni a bassorilievo sulle fronti principali del bronzo sacro. Su quella rivolta verso il sagrato, tra quattro cherubini, si osserva la Madonna seduta in trono con il Bambino nel grembo: la cosa non sorprende, considerando come una delle principali caratteristiche dell’eremitismo individuale, in periodo controriformista, sia stato sempre la pietà mariana. Su quella rivolta verso l’altare, invece, compare San Girolamo, in compagnia del leone, che si batte il petto con un sasso stando inginocchiato ai piedi di un grande Crocifisso. Il santo indossa la veste tipica degli eremiti, cioè un saio simile a quello dei frati francescani, ma un po’ più corto e senza cappuccio, la cui descrizione risulta altrimenti nota anche su base documentale.
A breve distanza dalla chiesa di San Girolamo, in località Bacchialinu, tra una fitta boscaglia si intravedono le estese rovine di un abitato romano risalente almeno all’età imperiale (I-II secolo d.C.), che raggiunse il suo massimo sviluppo in età tardo romana (verso la fine del IV e il V secolo d.C.). La sua natura, in origine, fu probabilmente mineraria, legata cioè allo sfruttamento dei bacini ferrosi della zona. Una volta abbandonato, non è improbabile che vi si possano essere trasferiti dalla vicina Carales o da Nora alcuni solitari, attratti da quell’ideale ascetico e di vita eremitica all’epoca molto sentito da un gran numero di cristiani. Essi, a giudicare dalla toponomastica, dovettero fondarvi una chiesa in onore di Sant’Antonio Abate, iniziatore in Egitto del movimento eremitico, dalla quale dovette prendere il nome la prospiciente vallata detta Su Canali ’e Sant’Antoni.