Per esperienza comune, non solo cristiana, quanto più profondo si rende il sentimento religioso, altrettanto imperioso si fa il bisogno della meditazione nella solitudine. Pochi furono gli uomini grandi dell’antichità che non emersero da essa, a partire anzitutto da Giovanni il Battista, il quale, come dice il Vangelo, si preparò alla sua missione di precursore vivendo a lungo nel deserto della Giudea, «vestito di peli di cammello e con una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico» (Mt 3, 4).
Lo stesso Gesù, prima di intraprendere la propria vita pubblica, «fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo», e qui rimase, immerso in preghiera, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (Mt 4, 1-2).
Tale esempio fu ben presto imitato in seno alle prime comunità cristiane. Il primo caso storicamente noto è quello relativo a Paolo di Tebe (San Paolo Eremita), che fuggì all’interno del deserto egiziano nel 250, durante la persecuzione di Decio, vivendo solitario novant’anni.
Più conosciuta, tuttavia, è l’esperienza spirituale di Sant’Antonio Abate, anch’egli egiziano, che attorno al 270, quand’era ancora un ragazzo, entrando un giorno in chiesa fu casualmente colpito da questa frase del Vangelo: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello chepossiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19, 21). Antonio diede in beneficenza tutte le ricchezze di famiglia, e avendo in seguito ascoltato anche quest’altra frase di Gesù: «Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6, 34), decise di adottare uno stile di vita completamente staccato dai beni materiali e dagli interessi di questo mondo, che fu alla base del monachesimo cristiano. Ritiratosi a vivere da solo, nel deserto, trascorreva il suo tempo in preghiera, con frequenti digiuni e lavori manuali.
In almeno due occasioni fece anche ritorno nel consesso civile recandosi ad Alessandria, antica capitale dell’Egitto. Una prima volta a predicare il Vangelo e confortare i cristiani, durante la persecuzione di Massimino Daia, nella speranza di poter ricevere il martirio. Sfuggito alla morte tornò nel deserto, rassegnandosi ad essere un «martire quotidiano per la sua coscienza, intento sempre a combattere le battaglie in difesa della fede». La seconda volta venne ad Alessandria per contrastare gli ariani, una setta eretica che negava la divinità di Cristo, ed entrò in contatto con Atanasio, vescovo cattolico della città. Questi, a un anno dalla morte del santo, nel 357 circa, ne scrisse poi la celebre Vita, che divenne estremamente popolare (un vero e proprio best-seller dell’antichità) e costituì il testo base da cui il monachesimo occidentale trasse la sua prima e più potente ispirazione.
In un periodo in cui l’impero era travagliato dall’anarchia e dalla confusione, e tutto sembrava incerto e vano, la storia di un uomo tanto retto affascinò molti cristiani, tra i quali lo stesso San Girolamo. Egli infatti, attirato ben presto dalla vita monastica, non solo studiò attentamente la Vita di Antonio, ma sul suo stesso modello scrisse la Vita di Ilarione, un eremita palestinese vissuto nel IV secolo, celebre per le sue durissime penitenze e i suoi miracoli.
Gesù aveva imposto ai propri seguaci di vivere nel mondo ma separati dal mondo, e siccome in tanti, all’epoca, ritenevano che la fine dei tempi fosse ormai prossima, nel corso degli anni era andato aumentando sempre più il numero di quanti desideravano essere guidati da Antonio sulla via della santità. Lo stesso fenomeno si verificò attorno ad Ilarione, cosicché sorsero in Palestina e nella Siria innumerevoli conventi ed eremitaggi, che il santo visitava una volta all’anno come abate.
L’esempio di Antonio e Ilarione, che pur vivendo solitari avevano attirato folle di discepoli, mettendo a disposizione la loro esperienza per indirizzarne il cammino spirituale entro linee di comportamento comuni, nel VI secolo, in Italia, ispirò anche San Benedetto. A lui si deve la prima regula monastica occidentale, pensata per comunità di clausura che avrebbero dovuto vivere in isolamento, secondo il ben noto principio dell’ora et labora (prega e lavora).
L’esperienza cenobitica benedettina, nel corso del medioevo, esercitò in Europa una vera e propria egemonia totalizzante, da cui un’inevitabile calo di tensione spirituale e un sempre più accentuato lassismo, da parte dei suoi protagonisti, che nel tentativo di ritornare all’originario spirito della Regola finirono per dividersi in un gran numero di congregazioni religiose indipendenti.
Come reazione alla decadenza che travagliava le istituzioni monastiche tradizionali, a partire dai secoli XI-XII, in molti si manifestò, fortissimo e appassionante, il desiderio di ripetere, in solitudini nuove, i fatti meravigliosi descritti nelle Vitae degli antichi anacoreti. Dalla lettura di questi libri, infatti, nacque l’idea di una nuova forma di vita religiosa, che scaturiva dall’eremitismo ma era anche in grado di rispondere alle esigenze della predicazione itinerante. Il modello, ancora una volta, era stato suggerito dalla Vita di Antonio, il quale, per difendere pubblicamente la fede, non aveva esitato ad abbandonare le proprie solitudini.
Tutti i grandi iniziatori di questo rinnovato monachesimo, detto “degli ordini mendicanti” in quanto votati alla più rigorosa povertà (Francescani e Domenicani), si riconobbero nel modello dei Padri del deserto, ed alle asprezze ascetiche che li avevano caratterizzati fecero costantemente appello per giustificare il loro rigorismo contro le obbiezioni dei Benedettini. Di sapore prettamente orientale, infatti, è l’esperienza religiosa di Francesco d’Assisi. Il “pazzo” che compie gesti estremi e teatrali come la rinuncia al padre terreno o la morte sulla nuda terra, l’estatico che canta e danza, l’asceta che punisce il proprio corpo, l’eremita che si nasconde nelle caverne e nelle capanne, l’insonne orante, non ha precedenti nel monachesimo occidentale.
Il rinnovato movimento eremitico si incontrò anche con le esigenze spirituali del laicato, e dopo un ulteriore periodo di decadenza, verificatosi nel tardo medioevo, rifiorì potentemente nella seconda metà del XVI secolo, in seguito al Concilio di Trento. In questo periodo molti semplici fedeli, con il permesso dei loro vescovi, vissero l’esperienza eremitica senza entrare a far parte di alcun ordine religioso. Semplicemente, per periodi di tempo più o meno lunghi, si ritiravano in solitudine in qualche chiesa campestre, di cui venivano nominati custodi, conducendo una vita di penitenza ed istruendo nelle verità della fede i contadini e i pastori del circondario. Allo stato attuale della documentazione, è da ritenersi che anche la chiesa di San Girolamo a Capoterra sia stata sempre frequentata solo da simili eremiti “laici”.
Un’originaria domus de janas neolitica scavata nella roccia, comprendente varie cellette intercomunicanti, in periodo paleocristiano fu trasformata in luogo di culto e il suo utilizzo continuò per tutto il medioevo: l’ultimo restauro e relativa riconsacrazione risalgono infatti al 1303, come indicato da una pergamena trovata nell’Ottocento all’interno dell’altare. Si ritiene che la chiesa servisse non un centro abitato, ma una comunità monastica di anacoreti, che vivevano ciascuno per proprio conto nelle numerose tombe preistoriche del circondario e si riunivano solo per le celebrazioni liturgiche. Comunità eremitiche di questo tipo, chiamate in greco laure, si diffusero in tutta la Sardegna a partire dalla conquista bizantina, nel VI secolo, sostituendo quelle comunità cenobitiche (insediate, cioè, all’interno di monasteri urbani di clausura, chiamati cenobi), che erano state introdotte nell’isola dai vescovi africani cattolici esiliati dai Vandali ariani, nel V secolo. Tra gli iniziatori del movimento eremitico, in Sardegna, una tarda leggenda indica i Santi Nicola e Trano, vissuti in Luogosanto di Gallura: i nomi greci di questi personaggi già parrebbero indicare, di per sé, come la loro esperienza monastica debba probabilmente essere ritenuta di tipo orientale. Nel silenzio delle montagne e nella pace dei boschi essi ricercavano la perfezione cristiana con la preghiera, la contemplazione e la penitenza, rendendosi anche disponibili nei confronti di quanti accorrevano loro per un consiglio. Si dice che le tombe dei Santi Nicola e Trano siano state scoperte nel XIII secolo da due francescani, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, grazie a un’apparizione della Madonna. Di anacoreti di tipo bizantino, in Sardegna, si continua ad avere notizia fino al XII secolo, quando negli atti di cessione di beni fondiari e chiese a favore dei monaci benedettini, cui il papato obbligò giudici e notabili dell’isola allo scopo di estirpare da essa ogni traccia di rito greco, talvolta si trova inserita la clausola secondo cui i nuovi venuti avrebbero dovuto rispettare quei donnos heremitas che eventualmente già vi si trovassero.
Che l’esperienza religiosa eremitica abbia avuto origine presso la Chiesa orientale, nei deserti d’Egitto e Palestina, è indicato dalla stessa etimologia del nome, derivante dal greco éremos, che significa “luogo isolato”. Dal greco derivano anche altri termini tipici come anacoreta, da anachoréo, che significa “vivere appartato”, ed ascetismo, dal greco àskesis, “esercizio”, in questo caso quello dello spirito, che, attraverso la mortificazione degli istinti, tende alla perfezione morale. Dal fenomeno eremitico ebbe origine anche il termine monaco, dal greco monachòs, che significa “solitario”. Successivamente, a causa di una strana evoluzione semantica, esso divenne sinonimo del suo esatto contrario, cioè di cenobita, dal greco koinòbion, che significa “vita comune”. In pratica i monaci veri e propri, cioè gli eremiti, crescendo man mano di numero, magari in uno stesso luogo, e dovendosi comunque incontrare almeno di tanto in tanto, se non altro per assistere alle cerimonie liturgiche nelle feste maggiori, finirono in alcuni casi per formare delle vere e proprie comunità, rette da un’unica regola, i cui membri si assistevano reciprocamente nel cammino verso la perfezione cristiana, continuando però a conservare la loro antica denominazione, sebbene ormai impropria. L’esperienza religiosa cenobitica si ispirava a quella dei primi cristiani, i quali, come si legge negli Atti degli Apostoli, «vivevano mettendo in comune ogni cosa». Essa risulta tipica dell’altomedioevo latino, specie nella particolare formulazione voluta da San Benedetto, che si ricollegava alle origini eremitiche del fenomeno monastico tramite la clausura, cioè l’isolamento della comunità religiosa dal mondo circostante. In seguito, nel XIII secolo, ebbero origine gli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani, i cui membri, che premettevano ai loro nomi l’appellativo di fra’ (dal latino frater, fratello), si riunivano a vivere in conventi (dal latino convenio, venire ad adunanza), senza possedere beni materiali, per tendere al perfezionamento interiore attraverso la cura d’anime e l’evangelizzazione: essi, cioè, rimanevano a diretto contatto con i fedeli, mettendosi a disposizione delle loro esigenze spirituali.
La statua in legno dell’altare, di fattura napoletana, risale alla seconda metà del XVIII secolo e raffigura San Girolamo in atteggiamento di penitente, genuflesso, che si batte il torso nudo con una pietra, guardando verso un crocifisso tenuto con la mano sinistra. I suoi lineamenti invecchiati, chiaramente, fanno riferimento non al primo periodo della sua esperienza eremitica nel deserto della Calcide, affrontata all’età di ventotto anni, ma alla seconda, cominciata nel 384, che prima del definitivo approdo nel monastero di Betlemme lo vide pellegrino in Palestina e in Egitto, presso gli asceti ritiratisi nel deserto della Nitria. Le rocce attorno al santo rappresentano l’asperità dei luoghi da lui prescelti per ritirarsi in solitudine. Ai suoi piedi giace il libro delle Sacre Scritture, indicante la sua qualifica di Dottore della Chiesa, mentre è purtroppo scomparso il tradizionale leone, del quale rimangono solo i due chiodi in ferro con i quali era fissato al basamento. Esso si riferiva alla leggenda secondo la quale una sera, stando a cena con i suoi discepoli nel monastero di Betlemme, uno di questi terribili felini sarebbe improvvisamente piombato nel refettorio. Tra il panico generale solo Girolamo si sarebbe alzato ad accogliere l’animale e gli avrebbe lavato le zampe, in segno di ospitalità, riuscendo così a liberarlo da una spina che lo tormentava. Riconoscente, il leone sarebbe quindi rimasto nel monastero, del tutto addomesticato, accettando perfino il ruolo di animale da soma. Della leggenda si danno varie spiegazioni: alcuni pensano a un’iniziale raffigurazione simbolica poi tradotta in realtà, cioè che il leone ammansito volesse rappresentare il demone della lussuria, sconfitto dal santo a prezzo di durissime penitenze; altri, invece, pensano a un banale errore di copiatura, da parte di qualche emanuense medievale, che avrebbe sbadatamente attribuito a Hieronymus quanto originariamente si riferiva a Hierasymus, monaco della Licia, vissuto nel V secolo, al quale era infatti legata una leggenda consimile.
In una lettera alla figlia spirituale Eustochio, San Girolamo racconta così gli anni di vita eremitica trascorsi nel deserto: « Tutto il tempo da me trascorso nel deserto, in quelle immense solitudini bruciate dal sole, che sono per i monaci un’abitazione orribile, avevo la sensazione di trovarmi tra le delizie di Roma. La mia pelle disseccata era coperta da una crosta di sale, ed era talmente abbronzata da farmi sembrare un’Etiope. Passavo le giornate a piangere i miei peccati, e quando il sonno mi vinceva era la nuda terra a formare un giaciglio per le mie membra ischeletrite. Non parlo del bere e del mangiare, perché l’aver un po’ d’acqua fresca o di cibo cotto mi sarebbero sembrati veri e propri peccati di lussuria. Nonostante avessi per compagni solo gli scorpioni e le bestie selvatiche, spesso mi sembrava di trovarmi in mezzo a gruppi di giovani donne, e dentro un corpo freddo, in una carne già morta, ricominciava a divampare l’incendio della lussuria. Di qui pianti continui e gemiti. Sottomettevo le mie membra ribelli a digiuni di più settimane, il giorno e la notte diventavano per me un’unica veglia, e non smettevo di battermi il petto finché il Signore non mi rendeva la tranquillità. La stessa mia cella, allora, mi faceva ribrezzo, in quanto testimone dei miei pensieri lascivi, e perciò l’abbandonavo, inoltrandomi ancora di più nel deserto. In quei casi, Dio mi è testimone, dopo aver pianto abbondantemente il cielo mi mandava sempre il suo conforto, e qualche volta ho avuto la sensazione di trovarmi rapito nel coro degli Angeli ».
Nel XIV-XV secolo la figura di San Girolamo, che con dovizia di particolari aveva descritto la propria esperienza eremitica in varie opere, fu presa a modello da quattro congregazioni religiose, i cui membri prendevano il nome di Girolamiti o Geronimiti. 1) La più antica è la Congregazione spagnola degli Eremiti di San Gerolamo, fondata a Toledo da Pedro Fernandez Pecha di Guadalajara (morto nel 1374), con alcuni discepoli del Beato Tommasuccio da Siena venuti dall’Italia. Approvata da Gregorio XI nel 1374, adottò la regola agostiniana. Tra i suoi conventi furono specialmente celebri quello di San Jeronimo de Yuste, in Estremadura, dove si ritirò l’imperatore Carlo V dopo l’abdicazione, e quello eretto da suo figlio Filippo II nel palazzo dell’Escorial, a Madrid. La congregazione, alla quale, oltre i religiosi propriamente detti, erano ammessi anche oblati e oblate, cooperò attivamente all’evangelizzazione degli indios in America, e dopo essere assurta a grande potenza decadde in maniera piuttosto repentina, tant’è che oggi non ne rimangono che poche case in Spagna. 2) La seconda famiglia religiosa girolamita fu quella degli Eremiti di San Girolamo della Congregazione di Fiesole, fondata nel 1360 da Carlo Guidi di Montegranelli, prete e terziario francescano, che con alcuni compagni si ritirò nella solitudine presso Fiesole, imponendosi una condotta di vita molto austera. Approvata nel 1406 da papa Innocenzo VII, la congregazione ebbe in seguito più di quaranta conventi, tra i quali quello dei Santi Vincenzo e Anastasio, a Roma, ma fu abolita da Clemente IX nel 1668. 3) Al terzo posto vengono i Poveri eremiti di San Gerolamo della Congregazione del Beato Pietro da Pisa, fondati nel 1377 sul Montebello, presso Urbino, dal Beato Pietro Gambacorta. Nel 1568, per ordine di San Pio V, adottarono la regola di Sant’Agostino. 4) L’ultimo a sorgere, in ordine di tempo, fu l’Ordine degli Eremiti di San Gerolamo dell’Osservanza o di Lombardia. Esso ebbe origine a Siviglia, dalla riforma portata alla Congregazione spagnola degli Eremiti di San Gerolamo da Lope de Olmedo (1370-1433). Venuto a Roma, il fondatore ottenne da papa Martino V l’approvazione di una regola severissima e il convento di Sant’Alessio sull’Aventino. Un altro lo ebbe a Castellazzo in Lombardia, dove le case dell’ordine divennero in seguito diciassette. Nel 1595 i conventi spagnoli si riunirono alla congregazione originaria e quelli italiani lentamente scomparvero.