Mozione presentata dal Consigliere Franco Bayre sull’ordine del giorno:
“Adozione da parte del Consiglio Comunale del toponimo Capoterra in lingua sarda”
Se è pur vero che, allo stato attuale, esistono problematiche ben più importanti e pressanti che meriterebbero l’attenzione di questa assemblea consiliare nondimeno è vero che il dover assegnare il giusto toponimo alla nostra Capoterra, (compito al quale stasera siamo chiamati), non può di certo venir catalogato come impegno di poco conto da affrontare e liquidare così en passant, magari con pressapochismo o affidandosi ad alchimie glottologiche-letterarie più attinenti al variegato pianeta d’una nouvelle vague linguistica che a quello della trasparente e incontrovertibile realtà storica.
E’ indiscutibile che per ogni civitas, o comunità civile che dir si voglia, il passato, la storia, le tradizioni sono le robuste fondamenta da cui non si può prescindere per capire, corroborare il presente e prospettare intelligentemente il futuro.
Pertanto conoscere, certificare e tramandare ai posteri l’esatto toponimo della nostra Capoterra implica un senso di responsabilità, scevro da qualsivoglia superficialità o preconcetto, un senso di responsabilità che dev’essere sapientemente indirizzato ad evitare un’insulsa disputa, finalizzata semplicemente a dar ragione e magari vanto a questa o piuttosto a quell’altra corrente di pensiero.
Supponiamo nessuno voglia o possa disconoscere che il nome Capoterra, la forma italianizzata d’un antico originario lemma latino “caput terrae”, risulti dalla composizione di due specifiche parole: capo (caput-capitis in latino) e terra (terra-terrae pur sempre in latino).
Ci troviamo di fronte ad una evidenza etimologica inconfutabile che non dovrebbe o potrebbe dar luogo a controversia alcuna.
Però, in virtù di quanto proposto in merito dall’assessore Pili, oggi siamo chiamati a dirimere se dicesi e scrivesi Cabuderra, come asserito appunto dall’assessore Pili o piuttosto Caputerra, come sostenuto dal sottoscritto?
Riteniamo che, sul versante dell’oralità, la contesa sia già risolta sul nascere: nel pronunciare il nome o toponimo della comunità cui apparteniamo, traspare immediata, a livello uditivo, la presenza di una “p” che cangia in una sorta di ibrida “b” nella parola capu, e altresì di una “t” che quasi scivola in una pur ibrida “d” nella parola terra.
Però da questa antica e collaudata pronuncia orale, riteniamo non si possa andare a sposare la tesi di un “cabuderra” come toponimo da usare anche nella ortografia.
Infatti, se si va a pronunciare il vocabolo “caputerresu”, che attiene al nome degli abitanti del nostro territorio, è immediato constatare, senza ombra di dubbio, che la p e la t riacquistano immediatamente la loro vigoria lessicale originaria e pertanto l’esatta etimologia giocoforza deve riallacciarsi e trovare conferma nell’originario nome latino caput terrae.
Nella nostra limba, al pari di tante altre lingue, diversi vocaboli vengono scritti in un modo e pronunciati in un altro.
Pertanto lo scrivere un vocabolo come lo si pronuncia condurrebbe in modo eclatante ad una scorrettezza storico- linguistica e ad un totale stravolgimento di qualsivoglia idioma.
Perché propendiamo per il toponimo Caputerra? Semplicemente perché la Storia ci “costringe” in tal senso.
L’attuale toponimo, italianizzato ormai in Capoterra, (in pratica all’originario vocabolo Caputerra si è semplicemente sostituita la u con una o) trae questa sua denominazione dal fatto che la collina su cui originariamente era posto il primo nucleo abitativo capoterrese, (nucleo situato a 54 mt. sul livello del mare), costituiva, per chi arrivava dal mare, il primo e più evidente inizio o lembo (caput-capitis) delle montagne che chiudono in direzione sud- ovest la laguna di Santa Gilla.
Il toponimo Caputerra, con pedissequa trasposizione dal vocabolo latino, compare già in antichi documenti quali le Carte Volgari Campidanesi e il Codex Diplomaticus Sardiniae appunto con la morfologia Caput Terrae.
Nella Chorographia Sardiniae del Fara, risalente al 1580-1589, il nostro paese viene citato come oppidum Capitis Terrae.
In un papiro risalente addirittura al 1355, papiro che è stato rinvenuto nell’archivio del re di Aragona e pubblicato nella Cancelleria del re Alfonso IV, meglio conosciuto come “su re’ bonu”, i padri basiliani presentano domanda al re per ottenere in comodato la nostra Chiesa di Santa Barbara che in tale documento viene specificata ed identificata letteralmente come “sita in Caputerra, insula Sardiniae”.
Negli atti del Parlamento del viceré Mantelliano, risalenti al 1699 e, attualmente reperibili nell’Archivio di Stato di Cagliari, alla voce “Villas de diferentes senores” unitamente a Ussena (Ussana), Gestori (Gesturi), Musei (Musei), Villa mar (Villamar), Teulada (Teulada), Soleminis (Soleminis) viene pure citata la nostra Caputerra (Capoterra).
Nondimeno nelle antiche carte geografiche e topografiche il nostro paese viene evidenziato e scritto con la forma Caputerra.
Altresì nei documenti presenti nel locale Archivio Parrocchiale e in gran parte risalenti al 600, si scrive di Caputerra.
La storia peraltro ci tramanda di un vasto territorio Su Caputerra che circoscriveva l’ambito che dalla laguna di Santa Gilla, passando per la Villa di Maria Maddalena (zona tra l’attuale Maramura e Maddalena Spiaggia) andava ad estendersi sino a lambire il litorale di Sarroch e forse anche oltre.
Emanuele Atzori nella sua pubblicazione “Capoterra un paese vicino e lontano” afferma che Caputerra inizialmente trovava identificazione territoriale in alcuni insediamenti che assommavano ad un villaggio secentesco contenuto tra la collina di Montarbu, Punta Sa Loriga e Monti Arrubiu, il cui nucleo originario andava a perdersi in tempi remoti.
Pasquale Cugia nel Nuovo Itinerario di Sardegna del 1892 fa risalire la costituzione della attuale Capoterra con la preesistente Villa de San Efis de Caputerra del barone Girolamo Torrellas.
Nel 1652, la peste, partita da Alghero, arrivò inesorabilmente fino all’opposto capo dell’isola, ovvero nel cagliaritano,seminando ovunque desolazione e morte.
Fu così che il barone Torrellas ,per debellare tale flagello, richiese la speciale protezione di Sant’Efisio ritenuto dai sardi il più potente taumaturgo contro le pestilenze.
Sconfitta la peste, il vecchio nucleo capoterrese venne ribattezzato dal Torrellas “Villa nueva de San Efis de Caputerra”.
Come si può evincere il toponimo Caputerra é una costante storica.
In conclusione: se è vero che il progresso è innovazione, nondimeno è sacrosanto che la storia, in quanto tale è immutabile, e non può essere catalogata “storia” se subisce degli stravolgimenti o delle variazioni rispetto ad una realtà appartenente al passato.
Quello che noi sardi cataloghiamo come “su connottu”, per avere autenticità storica non può essere manomesso da alchimie glottologiche,lessicali, operate talvolta addirittura da pseudo luminari linguistici, nutriti a ipercalorici savoiardi e pavesini che pretendono di insegnare il verbo sardo a persone, come gran parte di noi, allevate e nutrite a matzamurru e ambuazza, persone che il sardo lo possiedono quasi a livello genetico e viscerale e non come bagaglio culturale d’accatto.
Lo studioso Massimo Pittau, autentico luminare in campo linguistico sardo, afferma che:
“In sa battalla chi semus fachende pro recuperare sa limba nostra e pro la bocare torra a campu, est cosa ladìna chi, pro prima cosa, noi la deppimus rispettare in cale si siat aspettu suo, chene la mudare in nudda.”.
E prosegue: “puru sa ortografia sarda de sa tradizione nostra depet esser rispettada e mai mutada de peruna manera, ca sa limba sarda est iscritta oramai dae milli annos, est a narrere chi est iscritta dae unu tempus chi nessun’atera limba romanza o neoladina at appidu sa sorte de aère e de connoschere.
E tando, comente est pussibile chi si peset calincunu o calincunos a mutare, antzis a istrobbare s’ortografia sarda tradissionale?
Cun cale autoridade limbistica, academica o pulitica, podet narrere o detzidere chi sas cussonantes isplosivas postas tra vocales si deppent semper iscrivere simpres e mai doppias?
Si sos Sardos da milli annos a como ant iscrittu e iscrivent caddu, puddu, sedda, no est fortzis una macchinigàda chi si peset unu a narrere e a detzidere chi imbetzes si depet iscrivere cadhu, pudhu, sedha?
Ma custos a itte non rispettant sa manera de iscrivere sa limba sarda chi oramai at deche seculos de iscrittura a favore suo?
Non cumprendent, custos sapientones rechentes, chi issos sunt riscande de ridicolizzare sa limba sarda a cara propriu de sos Sardos?
E conclude: “ O amicos, lassader sos macchighines e ponide sale in conca: rispettade sa limba sarda puru in sa manera sua de iscrittura chi nos at lassadu sa tradissione nostra.”.
Noi riteniamo sia assolutamente condivisibile quanto asserito dal professor Pittau che in ambito linguistico (non dimentichiamo la sua saldissima amicizia “culturale” con il Wagner) non è di certo, come suol dirsi, un’approillàu.
E allora perché cambiare, perché arrogarsi prepotentemente e gratuitamente la facoltà di cancellare o modificare il passato con strane alchimie glottologiche, storiche e letterarie riconducibili all’insulsa e purtroppo imperante filosofia del “centu conca,centu berrittas” o addirittura all’arrogante andazzo del “ su primu chi si ndi scidat fait lei”?.
Pertanto per quanto su esposto, viene presentata mozione finalizzata, tramite un espressione di voto di Codesta Assemblea Consiliare, a deliberare che il toponimo esatto dell’italianizzato Capoterra, sia da scrivere in limba, come sostenuto dal sottoscritto e certificato dalla storia, Caputerra anziché Cabuderra come da proposta dell’assessore alla cultura Oreste Pili.
Il Consigliere Comunale
Franco Bayre