Certo! Non c’è dubbio: Capoterra non è Auckland e il campo di via Trento non è l’Eden Park.
Però, vi assicuro: l’atmosfera che si respira sugli spalti del Comunale non ha niente da invidiare a quello del ben più famoso stadio dell’emisfero sud.
Sarà il trucco sul viso delle ragazze, il colore delle loro guance e dei capelli spruzzati di spray.
Sarà il giallo e il rosso delle bandiere cucite con i ritagli di stoffa recuperata.
Sarà il coro spontaneo che parte un po’ così e poi, più si canta e più diventa una voce unica.
Vabbè … d’accordo, manca il richiamo del maori che suona la conchiglia e accoglie le due squadre all’ingresso in campo e pure la telecamera che vola da una parte all’altra delle tribune.
Ma i nostri Munari e Raimondi bene o male, quelli ce li abbiamo.
E scusate tanto, ma in Nuova Zelanda durante la partita, non si sente di certo, il buon profumo di malloreddus al sugo che giunge dalla club house, appiccicandosi agli abiti.
Così come non manca il grande pubblico delle occasioni importanti.
E quando si gioca in casa, quella domenica è sempre una di quelle.
Quando aspetti per quindici, lunghi giorni, quel momento.
Perché senza quegli ottanta minuti, senza l’urlo che esplode ad ogni tuffo in meta e scuote le tribune in lamiera, senza le corse dell’ala proprio lì davanti, lungo la linea laterale, senza la spinta compatta della mischia e il lancio svelto del mediano verso l’apertura, senza il rugby, mi dite voi cosa ci rimane?
Non c’è dubbio: Capoterra non è Auckland e sicuramente non lo sarà mai.
Ma è quel paese dove le colline, dall’alto, osservano i fenicotteri che giocando con un ovale, si rincorrono nella laguna.
Antonio Falda