La grande semplicità dell’esterno si riflette anche all’interno della chiesetta di San Girolamo, una piccola aula a pianta longitudinale con copertura lignea. Le si addossano su entrambi i lati lunghi alcuni ambienti di servizio, uno solo dei quali, adibito a sacrestia, posto in comunicazione con essa tramite una porta aperta nella parete destra.
Sebbene l’intonaco con consenta di riconoscerne le tecniche costruttive e le varie fasi, una chiara testimonianza delle complesse vicende attraversate dall’edificio nel corso dei secoli è comunque rappresentata dal suo pavimento, il cui livello appare notevolmente rialzato rispetto al piano di calpestio esterno, denunciando con questo numerosi rifacimenti. L’attuale impiantito in monocottura è stato posato nel 1994.
Le pareti appaiono totalmente lisce e nude, a parte una nicchietta centinata in asse al portale, aperta nel controprospetto, che in origine doveva ospitare una scultura miniaturistica oggi scomparsa.
In un altro rincasso della parete, a destra entrando, è inserita una bella acquasantiera in marmo bianco a forma di conchiglia, decorata all’esterno con rosette in rilievo. Presumibilmente databile al XVII secolo, essa costituisce uno dei più antichi arredi della chiesa ancora conservati, assieme alla pala dell’altare.
Quest’ultima è un’ancona architettonica in legno, arieggiante la facciata di un edificio classico, del tipo diventato di moda tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. In origine doveva inquadrare un grande dipinto su tavola o su tela, di cui rimane solo la larga cornice a profilo modanato. Al centro del suo lato inferiore, resa parzialmente illeggibile da più recenti ridipinture, compare il nome del suo presumibile committente, il C(anonicu)s (?) Antonius Gavianus, inciso a bulino in bei caratteri capitali latini. Il lato superiore, invece, risulta interamente campito dalla raffigurazione dipinta di due angeli reggicorona, rappresentati in volo, che convergono l’uno verso l’altro tenendo gli sguardi rivolti sullo spettatore. L’esame stilistico può farli attribuire al pittore tardo-manierista Francesco Pinna, di origini algheresi ma attivo a Cagliari dal 1587 almeno, morto nel 1616.
La presenza di angeli reggicorona sembrerebbe indicare come il soggetto principale del grande dipinto ormai scomparso dovesse essere la Regina Coelorum (la Madonna Regina dei Cieli), ai cui lati, considerata la forma quadrangolare del supporto, dovevano presumibilmente disporsi da una parte la figura del santo titolare, cioè San Girolamo, e dall’altro quella di San Francesco d’Assisi, fondatore del terz’ordine al quale, secondo le normative canoniche in vigore tra Cinque-Seicento, erano soliti aggregarsi quasi tutti gli eremiti individuali.
A conferma della prima ipotesi si può forse citare la piccola campana della chiesa, recante su un lato l’immagine di San Girolamo e sull’altro quella della Vergine col Bambino seduta in trono, cioè in atteggiamento regale, il che giustificherebbe pienamente gli angeli reggicorona sulla sommità dell’ancona. Infatti, se il dipinto sull’altare fu davvero realizzato entro il 1616, la campana, che risulta essere stata fusa nel 1620, potrebbe averne ripreso i principali elementi del programma figurativo.
A conferma della seconda ipotesi, invece, si possono probabilmente citare i due più antichi eremitani della chiesa di San Girolamo a Capoterra finora conosciuti, cioè frate Francisco Boy per il 1565 e frate Francisco de Quentia per il 1615: siccome, emettendo i voti, anche questi religiosi erano tenuti a cambiare nome, mantenendo solo quello di famiglia, il fatto che entrambi abbiano preso quello di San Francesco forse non è dovuto al caso, ma alla scelta di adottarne la regola. La presenza francescana a San Girolamo, d’altra parte, risulta confermata da uno stemma dell’ordine, in legno intagliato e dipinto, osservabile sopra la nicchia dell’altare, nella parte rimaneggiata nella seconda metà del XVIII secolo.
È in questo momento, infatti, che il grande dipinto originario con la Beata Vergine e Santi venne sostituito da una nicchia, sempre in legno, raccordata alla vecchia intelaiatura architettonica tramite ampi diaframmi dipinti a finti marmi. In tutto questo intervento si individua una grande approssimazione e una grande povertà di mezzi tecnici, in stridente contrasto con il buon livello artigianale dell’incassatura più antica. Che tali modifiche siano state realizzate in pieno Settecento appare confermato non solo dal fregio della pala antica, ridipinto a finti marmi intarsiati di stile rococò, ma anche dalla statua del santo titolare, opera napoletana di buona fattura, databile per l’appunto a questo periodo.
Contemporaneamente fu realizzata la mensa dell’altare “a ventaglio”, con i suoi due gradini reggicandelabro desinenti a volute, in muratura stuccata e dipinta a finti marmi intarsiati policromi.
Ancora non è dato sapere da chi sia partita l’iniziativa di un restauro tanto radicale. A questa stessa persona, probabilmente, si devono anche la muta di dodici candelieri in legno intagliato e dorato, sei grandi e sei piccoli, in dotazione all’altare, e il suo servizio di palmatorie lignee, cioè di finti vasi realizzati al tornio, anticamente utilizzati come supporto per i fiori di seta.
L’altare della chiesa di San Girolamo a Capoterra è composto da una mensa in muratura cui si sovrappone una pala lignea, stilisticamente e cronologicamente ben distinte. Quest’ultima, con incassatura di tipo architettonico, risulta profilata da una coppia di alte e sottili colonne nere su base ionica, senza predella, il cui fusto rastremato presenta una decorazione ad intaglio, foliacea nel terzo inferiore e fittamente scanalata nella parte più alta. Sui capitelli corinzi poggia una complessa trabeazione d’ispirazione classica con architrave a due fasce intagliato e dorato, fregio a finti marmi intarsiati con rosette in rilievo e cornice a tripla fascia di raggi a cuori, perline e astragali, ovoli e conchiglie, anch’essa intagliata e dorata. Sono purtroppo scomparsi, in cima, i due acroteri o semitimpani laterali, come pure l’attico o lunetta centrale. La cornice architettonica doveva inquadrare un grande dipinto raffigurante al centro la Madonna, come indicato dai due angeli reggicorona che lo sormontavano, affiancata dai santi Girolamo e Francesco d’Assisi. L’esame stilistico e il confronto con altri consimili arredi lignei, esistenti in varie chiese specie del meridione sardo, ne attestano la matrice prebarocca e una datazione oscillante tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo. A commissionarlo, come risulta da un’iscrizione incisa alla sua base, dovette essere un tal C(anonicus) (?) Antonius Gavianus. Nella seconda metà del Settecento il dipinto fu sostituito da una statua lignea del solo santo titolare, di fattura napoletana, racchiusa in una nicchia fissata all’incassatura più antica con segmenti di una larga cornice intagliata a volute, posta in opera dopo essere stata malamente segata nel senso della lunghezza. A questo semplice cassone rettangolare, dipinto al suo interno di azzurro cupo con stelle dorate, ad evocare il contesto paradisiaco, fu fatto assumere un profilo centinato per mezzo di una cortina lignea, decorata a pastiglia con un motivo fitomorfo. L’affiancano due snelle colonnine tortili nere poggianti su modiglioni, e sorreggenti sui loro capitelli compositi alquanto stilizzati una trabeazione dominata dallo stemma francescano. A questo stesso momento risale la mensa dell’altare del tipo “a ventaglio”, con i suoi due gradini reggicandelabro desinenti a volute, in muratura stuccata e dipinta a finti marmi intarsiati policromi. In alcuni punti, dov’è caduta la stuccatura di rivestimento, si osserva come tale struttura sia stata scolpita nel calcare tramezzario, non reperibile in loco e dunque appositamente trasportato fin qui dalle cave di Cagliari. Dalla Liguria proviene invece la tavola d’ardesia che ricopre la mensa. Seppure ingentilita dalle ampie volute disposte sugli spigoli frontali, la forma rigidamente parallelepipeda di quest’ultima, estranea ai canoni estetici tardo-barocchi, farebbe ritenere che al suo interno possa essere stato inglobato, per rispetto, l’antico altare cinque-seicentesco. Il tabernacolo è moderno, non pertinente e in palese contrasto con l’insieme architettonico originario, nel quale è stato inserito in rottura. Il più antico è stato probabilmente rubato, come lo sportello della nicchia di cui ormai si conservano soltanto i cardini in ferro.
I due angeli reggicorona della pala d’altare indossano l’uno veste bianca con sopravveste rossa e l’altro veste rossa con sopravveste bianca, mentre ad entrambi appare comune un piccolo velo omerario verde. Sebbene ridipinti, nell’affatto irrilevante compostezza delle loro aeree figure, nelle proporzioni sfilate delle loro membra, nell’eleganza dei panneggi e nell’utilizzo sapiente del chiaroscuro, che si appalesa in special modo nelle fisionomie, meno guastate da interventi estranei, essi rivelano la mano sicura di un esecutore di vaglia. Questo, anche per le capigliature ricciute e riunite a ciuffi, in parte ricadenti al centro di una fronte sempre piuttosto ampia, per i volti ovali dal mento poco pronunciato e gli occhi tondeggianti ma dallo sguardo luminoso e vivo, sotto le palpebre un po’ pesanti, potrebbe essere individuato nel pittore tardo-manierista di origine algherese Francesco Pinna, morto a Cagliari nel 1616.
Raffigura, di fronte a una croce, il braccio nudo e stigmatizzato di Cristo che si incrocia con quello di San Francesco, pure stigmatizzato ma rivestito del saio. Siccome, fin dal 1629, alla chiesa di San Girolamo a Capoterra era stato intitolato un canonicato di stallo della cattedrale di Cagliari, il che implica la sua sicura appartenenza al clero secolare, si dovrà escludere la notizia, riportata nell’Ottocento dal p. Vittorio Angius, secondo cui «verso il 1640» vi avrebbero avuto un loro ospizio i frati minori osservanti di San Francesco. Lo stemma dell’ordine, di conseguenza, dovrà essere riferito all’iniziativa non di un religioso professo, ma di un terziario. È noto, infatti, come gli eremiti individuali laici di nomina vescovile, al momento di emettere i voti religiosi, fossero tenuti ad aggregarsi a un terz’ordine secolare, e come molto spesso scegliessero proprio quello francescano. Quest’ultima circostanza, per la chiesa di San Girolamo, sembrerebbe trovare conferma in numerosi indizi, fin dal XVII secolo, il che, alla lunga, potrebbe avere dato origine a quella tradizione, dai termini ormai un po’ distorti e vaghi, raccolta dal p. Angius o dai suoi informatori.
Alcuni tipi di palmatoria settecentesca in legno tornito, a forma di vaso. Servivano da supporto per adornare gli altari con i fiori finti.
A forma di conchiglia, tipicamente barocca, mostra sul lato esterno una decorazione a rosette in rilievo, che si estende al suo intero perimetro. Ciò dimostra come in origine essa fosse stata destinata ad essere posta su una colonnina, e come quella attuale, in un rincasso della parete, altro non sia che una sistemazione di ripiego.
Balaustra lignea
Il presbiterio, rialzato di due gradini, era tenuto distinto dall’aula anche tramite una balaustra di sottili colonnine in legno tornito, di datazione incerta (forse perfino seicentesca, come potrebbero indicare i consimili esempi cagliaritani esistenti nelle chiese di San Domenico, di Sant’Efisio, Santa Restituta e della cripta del Santo Sepolcro). In gran parte travolta e distrutta dal crollo del tetto, avvenuto nel 1991, i suoi elementi superstiti ed altri provenienti dal pulpito, anch’esso crollato, sono stati riutilizzati per realizzare la nuova mensa dell’altare mobile rivolto al popolo e il leggio, secondo i dettami liturgici postconciliari, mentre i suoi plinti angolari sono stati trasformati in fioriere.