Sophronius Eusebius Hieronymus, San Girolamo, Dottore della Chiesa ed uno tra i quattro massimi Padri latini (assieme a Sant’Agostino, Sant’Ambrogio e San Gregorio Magno), nacque a Stridone, sul confine italo-dalmata, attorno al 347. Di ricca e nobile famiglia cristiana, ricevette un’accurata educazione letteraria che perfezionò a Roma, alla scuola del celebre grammatico Donato. Qui divenne catecumeno e ricevette il Battesimo, impartitogli da papa Liberio (352-366).
Le lusinghe mondane della grande capitale, però, cominciarono ad esercitare su di lui un fascino irresistibile, per cui, dopo dieci anni, se ne venne a Treviri, alla scuola di altri rinomati maestri di retorica. Toccato dalla grazia, decise di darsi a una vita intensamente cristiana, improntata a un severo ascetismo. Passato ad Aquileia, nel 374, con alcuni amici vi fondò una prima congregazione monastica.
L’anno seguente, per imparare il greco, si trasferì ad Antiochia con la sua ricchissima biblioteca, perché pur avendo rinunciato al mondo non riusciva a separarsi dai suoi prediletti studi. Come raccontato da lui stesso, in questo periodo passava i giorni a leggere Cicerone e la notte a leggere Platone, dato che lo stile disadorno dei testi sacri non si confaceva ai suoi raffinati gusti letterari. Ammalatosi gravemente, ebbe quindi la celebre visione che decise definitivamente della sua esistenza. Nel delirio dell’agonia gli parve infatti di essere stato condotto di fronte al Giudice divino, che gli chiese di qualificarsi. Avendo risposto: «Sono cristiano», ne ebbe questo severo rimprovero: «Non è vero. Tu sei ciceroniano, non cristiano, perché laddove uno ha il suo tesoro, ivi è anche il suo cuore». Girolamo fu dunque fustigato e durante le sue sofferenze giurava che non avrebbe più posseduto libri pagani. Al risveglio le sue spalle erano coperte di lividi. Guarito, si diede interamente allo studio delle Sacre Scritture, e sia per attendere meglio a questo difficile compito, sia per mortificare gli impulsi della sua ardente natura, si ritirò a vivere in solitudine nel deserto della Calcide, ai confini della Siria.
Come ad Antiochia si era impadronito del greco, lingua originaria del Nuovo Testamento, nei due anni trascorsi in Calcide San Girolamo cominciò ad impratichirsi dell’ebraico, lingua originaria dell’Antico Testamento. Dopo aver superato gravi tentazioni, con l’aiuto della preghiera e della penitenza, nel 379 se ne tornò ad Antiochia, dove il patriarca Paolino lo ordinò sacerdote.
Poco dopo si trasferì a Costantinopoli, alla scuola di San Gregorio Nazianzeno, e tradusse varie opere teologiche dal greco in latino, ad uso degli ecclesiastici occidentali.
Per accompagnare Paolino di Antiochia ed Epifanio di Salamina al Concilio Romano del 382, Girolamo tornò in Italia e fu presentato a papa Damaso, che lo volle come amico e consigliere, nominandolo suo segretario.
Per ordine del papa diede inizio alla revisione sistematica dell’antica versione latina della Bibbia, detta Itala. Circondato della stima universale strinse importanti amicizie, specie in seno all’aristocrazia, diffondendo il suo ideale di vita monastica. In casa della matrona Marcella, con la madre di lei Albina, le pie Asella, Paola e le figlie di quest’ultima, Blesilla ed Eustochio, fondò una sorta di cenacolo in cui venivano seguite le sue disciplinate abitudini di digiuno e di veglia. Egli, infatti, era solito mangiare solo una volta al giorno dopo il tramonto del sole ed alzarsi dal letto nel cuore della notte e prima dell’alba, per intonare le lodi divine.
La morte della giovane Blesilla, causata, a quanto si disse, dalla troppo austera condotta di vita suggeritale da Girolamo, fu causa della sua caduta in disgrazia, per cui alla morte di papa Damaso, nel 384, ripartì per la Palestina e si stabilì a Betlemme, presso la Grotta della Natività.
Le accuse a suo carico erano soltanto pretestuose, come dimostra il fatto che la madre e la sorella di Blesilla lo seguirono fedelmente a Betlemme, rimanendo al suo servizio fino alla morte.
In realtà Girolamo, con i suoi continui successi letterari, con il suo spirito caustico sempre incline alla polemica, si era attirato la terribile invidia dei confratelli. Una leggenda medievale racconta addirittura che i suoi nemici, per screditarlo, mentre dormiva ne avessero sostituito la tunica con un’altra di taglio femminile. Alzatosi ancora al buio, come d’abitudine, egli fece dunque la sua comparsa in chiesa indossando quella veste, dando l’impressione di avere passato la notte con una donna.
Nei 34 anni trascorsi in Terrasanta, il santo attese innanzi tutto a perfezionarsi nella conoscenza dell’ebraico, con l’aiuto di vari rabbini. Si dice che alcuni di essi temessero la disapprovazione dei correligionari, per il fatto di insegnare a un cristiano, ma era tanto il suo fascino intellettuale che pur di incontrarlo preferivano rinunciare al sonno, andandolo a trovare con il favore delle tenebre. Girolamo tradusse quindi il Pentateuco, direttamente dai testi originali, e compose un’impressionante quantità di altre opere, nelle quali rifulge tutta l’ampiezza della sua cultura.
Morendo, il 30 settembre del 420, aveva al suo attivo sessantatré volumi di commenti latini e più di cento volumi sul significato delle Scritture, improntati al metodo allegorico. A questi devono poi essere aggiunti i lavori dogmatico-polemici, contro gli eretici del suo tempo, i lavori storici, una folta corrispondenza e varie traduzioni minori di opere dei padri greci. Il più duraturo monumento della sua scienza rimane comunque la prima Bibbia completa in latino, nota come Vulgata (cioè “traduzione nella lingua del popolo”), che divenne il testo biblico ufficiale della Chiesa cattolica.
Una delle più curiose e storicamente infondate versioni dell’iconografia geronimiana vede il santo rivestito della porpora cardinalizia, nonostante sia vissuto quando ancora questa carica non era stata istituita. Jacopo da Varazze, nella sua Legenda aurea (XIII secolo), scriveva che tale dignità gli sarebbe stata conferita ad appena ventinove anni, durante il suo primo periodo romano (363-373). È più probabile, comunque, che la leggendaria convinzione si fosse formata, piuttosto, con riferimento all’epoca della sua seconda permanenza a Roma (382-384), quando egli effettivamente ricoprì il ruolo di amico, confidente e consigliere personale di papa Damaso, cioè, per così dire, di vero e proprio cardinale ante litteram.
Più evidente, invece, risulta il motivo degli altri tipici attribuiti iconografici del santo, cioè la penna, il calamaio e il libro. Essi si riferiscono all’instancabile attivismo del più grande erudito tra gli scrittori latini dell’antichità cristiana, al quale si devono centinaia di lavori sul testo biblico, primo fra tutti una nuova ed elegante traduzione in latino delle Sacre Scritture. Per Sant’Agostino, Girolamo avrebbe letto tutti o quasi tutti i libri esistenti a quel tempo, e la sua autorità scientifica era tale che, come dice Orosio, altro celebre Padre della Chiesa, l’Occidente teologico pendeva dalle sue labbra.
La Grotta della Natività di Cristo, a Betlemme, monumentalizzata nel IV secolo dall’imperatore Costantino. Chiuso in un monastero vicino, San Girolamo trascorse gli ultimi 35 anni della sua vita, completamente immerso negli studi biblici e teologici. Fu anche responsabile spirituale di un altro monastero costruito dalla matrona Paola per le sue compagne. A protezione di entrambe le strutture fu eretta anche una torre, che servì da rifugio all’intera comunità durante le incursioni saracene in Palestina, nel 410-412 e nel 416. Alla sua morte Girolamo fu sepolto a breve distanza dalla grotta stessa, in una tomba scavata nella roccia, ancora oggi visitabile.
Epitaffio marmoreo di Gaudiosus, vir devotus, trovato nell’area funeraria attorno alla basilica di San Saturnino, a Cagliari. Contiene, nelle righe iniziali, una lunga citazione del Salmo 50, il famoso Miserere, tuttavia nella sua traduzione più antica, quella del Salterio Romano: « Miserere mei, D(eu)s, secundum magna(m) / misericordiam tuam, et secundum / multitudinem miserationum tuarum / dele iniquitatem meam. Amplius laba (!) me / ab iniustitia mea, et a delicto meo munda m{a}e ». Nella traduzione rivista da San Girolamo, per ordine di papa Damaso, lo stesso passo subì alcune leggere modifiche: « Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam; et secundum multitudinem miserationum tuarum, dele iniquitatem meam. Amplius lava me ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me ». In traduzione italiana: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato ». L’iscrizione è molto importante perché dimostra come in Sardegna, a livello popolare, già nel VI secolo dovesse esistere una prassi liturgica penitenziale, e perché testimonia della relativa difficoltà con cui la traduzione biblica di San Girolamo, approntata ormai da due secoli, poté definitivamente imporsi come testo ufficiale della Chiesa latina.
Frammento di Salterio manoscritto in pergamena, risalente al XIV secolo. Contiene alcuni versetti del Vangelo di San Matteo (6, 18-21), nella traduzione ufficiale di San Girolamo: « Et P(ate)r tuus, q[ui videt in] / absco(n)so, redd[et tibi. No]/lite thesaurizar[e vobis] / th(es)auros in t(er)ra: [ubi aeru]/go et tinea d(e)m[olitur: et] / ubi fures effo[diunt et fu/ra(n)]tur. Th(es)a[urizate autem] / vob(is) th(es)aur[os in coelo, ubi] / nec (a)erugo [nec tinea] demol{l}it[ur et ubi fures] / n(on) effod[iunt nec furantur.] / Ubi e(n)i(m) est [thesaurus tuus, / ib]i e(st) et cor [tuum.] ». Il passo è relativo al Discorso della montagna, in cui Gesù, tra le altre cose, raccomandava ai discepoli di fuggire l’ipocrisia di quanti si mostravano emaciati in pubblico, per mostrare vanamente agli uomini un falso spirito di penitenza: « In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore ». L’ultima frase ebbe una grande importanza nella vita di San Girolamo, perché sarebbe stata pronunciata a suo carico dal Giudice divino nella celebre visione del 375, in cui gli fu rimproverato un amore per la letteratura classica superiore a quello per le Sacre Scritture. Nella pergamena, al brano evangelico segue l’inizio del Salmo 29: « Exaltabo te [Domine quoniam susce]/pisti me: nec d[electasti inimi]/cos meos sup[er me] ». In traduzione italiana: « Ti esalterò, Signore, perché mi hai liberato, e su di me non hai lasciato esultare i miei nemici ».
La più importante tra le opere storiche di San Girolamo, il De viris illustribus, dedicata a quanti fino a quel momento si fossero distinti nello studio della Sacra Scrittura, contiene questo elogio di San Lucifero, vescovo di Cagliari dal 350 al 370 circa: « Il vescovo cagliaritano Lucifero, con Pancrazio e Ilario, chierici della Chiesa romana, fu inviato da papa Liberio all’imperatore Costanzo, per difendere la fede cattolica. Siccome non volle rinnegare i decreti del Concilio di Nicea, propugnati da Atanasio, essendo stato confinato per questo motivo in Palestina, con ammirevole fortezza d’animo e disposizione al martirio scrisse un libro contro lo stesso imperatore Costanzo, inviandoglielo perché lo leggesse. Non molto tempo dopo, sotto il successore di costui, il principe Giuliano (l’Apostata), il suo esilio fu revocato e Lucifero poté tornare a Cagliari, dove morì sotto il regno di Valentiniano ». L’imperatore Costanzo II aveva aderito all’eresia ariana, che negava la divinità di Cristo, mentre Atanasio, patriarca di Alessandria d’Egitto, era a capo di quanti avevano scelto, a costo di gravi persecuzioni da parte del potere politico, di difendere il dogma cattolico proclamato nel Concilio di Nicea. Lucifero, di ritorno a Cagliari, nel 362 capitò ad Antiochia, dove in contrapposizione al vescovo Melezio, che per viltà aveva aderito all’eresia ariana, consacrò vescovo il presbitero Paolino, causando tra i fedeli di quella Chiesa un piccolo scisma. Alcuni anni più tardi, nel 379, una volta riconosciuto legittimo vescovo di Antiochia da papa Damaso, fu questo stesso Paolino ad innalzare San Girolamo all’ordine del presbiterato.
Pur essendogli debitore del suo sacerdozio, anche se per via indiretta, San Girolamo non vide mai di buon occhio il rigorismo dottrinale e disciplinare di San Lucifero, il quale si era dichiarato nettamente contrario al fatto che i vescovi traditori, dopo aver aderito all’eresia ariana, potessero conservare la loro carica e i loro privilegi. La politica della riconciliazione, invece, era stata adottata da papa Liberio, per il più ampio bene della Chiesa. Dopo la morte di Lucifero, alcuni suoi seguaci ne conservarono l’atteggiamento fiero e intransigente, formando quella che fu impropriamente definita “la setta” dei Luciferiani. Per combatterla, tra i suoi lavori dogmatico-polemici, San Girolamo compose la Altercatio Luciferiani et Orthodoxi, un dialogo improntato al più pungente sarcasmo nei confronti degli avversari. Dimentico delle frustate ricevute, in sogno, a causa del suo eccessivo amore per la letteratura classica, Girolamo rispolverò in questa sua opera tutto l’armamentario polemico a suo tempo dispiegato da Cicerone contro i Sardi e la Sardegna. Una delle più celebri battute della altercatio, infatti, è quella relativa alla mastruca, l’arcaica veste di pelli indicata da Cicerone come caratteristica dei nostri antenati, da lui definiti mastrucati latrunculi (ladruncoli coperti di pelli): Girolamo si ricordò di questo particolare termine, chiedendosi polemicamente, a proposito dell’eccessivo rigorismo dei Luciferiani, se per caso non ritenessero che Cristo si fosse incarnato e fosse morto solo a vantaggio della mastruca Sardorum, e non anche per la salvezza, tra gli altri, degli ecclesiastici caduti nell’eresia ariana, purché sinceramente pentiti del loro errore.